Donne, la discriminazione inizia dalla busta-paga

Vietata a chiare lettere da leggi e contratti collettivi, stigmatizzata con orrore nella teoria e nei discorsi pubblici, la discriminazione salariale tra uomini e donne è però fatto scontato ed accettato nel mondo del lavoro. Come una realtà scomoda ma ovvia, davanti alla quale si può solo fare spallucce e pensare con rammarico alle tante ingiustizie della vita. Le stime più ottimistiche – basate su dati Istat, elaborate in ricerche Isfol e Ires, condivise da istituzioni e sindacati – parlano di un divario del 20%. A parità di formazione professionale e di mansioni svolte, le donne guadagnano sistematicamente l’80% di quanto trovano in busta paga i colleghi maschi. E una volta conclusa la carriera, possono contare su pensioni più basse del 40% a parità di anni contributivi.
Com’è possibile? Le vecchie spiegazioni, che alle donne rinfacciavano la responsabilità di competenze inferiori o sbagliate, vanno storicamente archiviate. Oggi – rilevano le analisi dell’Ocse – le donne studiano di più, ottengono i voti migliori, si laureano più in fretta. Eppure le pari opportunità restano un miraggio nella vita pubblica, lavorativa o politica che sia. La differenza retributiva si spiega, in prima battuta, con una serie di discriminazioni indirette che incidono poi sul salario: discriminazioni settoriali, contrattuali e verticali. Le donne sono, innanzitutto, poco presenti nei comparti ad alto contenuto tecnologico e scientifico, ma rappresentano la maggioranza della forza lavoro nel commercio o nei servizi: la femminilizzazione dell’occupazione è quindi avvenuta nei settori genericamente peggio retribuiti.
Inoltre i processi di precarizzazione hanno riguardato soprattutto le donne, che costituiscono il 60% dei co.co.co, per giunta nelle aree meno qualificate. «Gli uomini lavorano negli istituti di ricerca, le donne lavorano nei call-center» spiega Giovanna Altieri, direttrice dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali della Cgil. Secondo l’indagine svolta dall’Ires sul lavoro atipico, infatti, le collaboratrici guadagnano la metà dei collaboratori: la media del reddito percepito dalle lavoratrici co.co.co. è pari a 6-7mila euro annui, mentre i colleghi maschi ne guadagnano 12-14mila. Il che genera, a sua volta, condizioni di svantaggio che si autoriproducono: le donne sono esposte a rapporti di collaborazioni più volatili e sono impossibilitate a investire in formazione per cambiare posizione di lavoro. Pesano, infine, le difficoltà femminili a scalare in verticale la piramide gerarchica occupazionale: la presenza delle donne è molto bassa ai livelli manageriali e dirigenziali e la carriera rimane nella maggioranza dei casi una prerogativa maschile. Più si sale nelle qualifiche professionali, più aumenta la disparità salariale maschile-femminile, poiché nelle mansioni di basso profilo i contratti collettivi costituiscono spesso un argine alla discriminazione (che comunque trova spazio nei molti part-time e nei pochi straordinari fatti dalle donne).
«Ma tutto ciò non basta a spiegare la grande disparità salariale – continua Giovanna Altieri – che in Italia esiste tra uomini e donne, anche in pari condizioni di alta professionalità. La ragione profonda sta nello squilibrio tra i sessi nell’accollarsi il lavoro familiare di cura, in gran parte sulle spalle femminili. E quindi nel nostro sistema di welfare, che impone alla famiglia stessa di farsi completamente carico della cura di bambini ed anziani». Per questo si può parlare di una discriminazione diretta presunta: «Nel mondo del lavoro – conclude la direttrice dell’Ires – è ben radicato uno stereotipo: si presume che le donne, causa figli e famiglia, abbiano un minor attaccamento al lavoro; si affidano loro incarichi di minor responsabilità nella convinzione che non possano assolvere mansioni più alte; le donne devono dimostrare di saper lavorare quando per gli uomini questa capacità è data per acquisita».
Sconfortante la conferma fornita dalla ricerca Almalaurea del 2005, condotta su oltre 75mila laureati di 36 diverse università italiane. Ad un anno dal conseguimento della laurea (in fase di accesso al mondo del lavoro, molto prima che si facciano una famiglia o abbiano dei figli) le donne guadagnano 885 euro netti mensili contro i 1.136 euro degli uomini, con un differenziale pari al 28%. Una discriminazione tanto più rilevante, in quanto confermata all’interno di ciascun gruppo disciplinare, che sia letterario, giuridico, scientifico o, soprattutto, economico-statistico, dove i maschi guadagnano il 60% in più delle colleghe (1.418 euro contro 888 euro mensili netti). Tali disparità si accentuano a tre anni dalla conclusione degli studi, quando il differenziale raggiunge il 29% (1.315 a 1.017 euro), ed ancora di più a cinque anni dal titolo (1.530 a 1.162 euro). Non stupisce che le donne risultino meno soddisfatte del proprio lavoro e meno gratificate dalle prospettive di carriera e guadagno.