Documento politico (primo firmatario Bellotti)

Il risultato elettorale ci consegna i seguenti punti di bilancio. Sul piano europeo emerge clamorosamente il crollo della socialdemocrazia, l’avanzata di forze di destra e di estrema destra, un dato non disprezzabile della sinistra comunista e di alternativa in diversi paesi (Francia, Germania, Portogallo, Grecia, Repubblica Ceca, Olanda, Danimarca). L’elevatissimo astensionismo deriva non solo da una protesta generica, ma anche da un netto sentimento di ostilità verso l’Unione europea, vista a ragione come fucina di provvedimenti antipopolari, fatti di privatizzazioni, precarizzazione, politiche monetarie restrittive, ecc. A questo sentimento non solo non risponde la socialdemocrazia, che del processo di integrazione capitalistica della Ue è uno dei protagonisti più convinti, ma neppure un generico europeismo di sinistra che alla prova dei fatti si dimostra o inesistente, o semplice appendice di istituzioni percepite come lontane e ostili ai bisogni popolari.
Sul piano italiano si segnalano: 1) La battuta d’arresto della Pdl e di Berlusconi, inserita tuttavia in contesto di tenuta della maggioranza di governo con la crescita della Lega e di una forte avanzata sul terreno delle amministrative. 2) La netta perdita del Pd (oltre quattro milioni di voti), che subisce inoltre l’avanzata di IdV, partito che ha avuto la crescita massima rispetto al 2008 sia in termini assoluti che percentuali. 3) Un aumento del voto a sinistra dal 5 al 7 per cento complessivo. 4) Un recupero della nostra lista, che in termini assoluti sfiora le cifre dell’Arcobaleno e le supera di poco in percentuale.

Il dato negativo della nostra lista va ascritto sia alla pesante eredità che ancora ci pesa addosso dopo la sconfitta dell’esperienza di governo, sia al permanere di nodi politici tutt’ora irrisolti, sia alla debolezza del nostro partito in termini di radicamento e credibilità dispersa lungo gli anni, nonostante l’impegno profuso dai nostri militanti.
Il mancato raggiungimento del quorum non può essere semplicisticamente ascritto alla divisione, pur essendo evidenti le gravi responsabilità di chi ha promosso nei mesi scorsi la scissione nel nostro partito. Il vero punto di fondo non è stata una errata “composizione” delle forze in campo, bensì il fatto che non è ancora risolto il nodo cruciale che abbiamo davanti, ossia la costruzione di una forza di sinistra capace di essere strategicamente esterna al bipolarismo e capace di tradurre e far vivere questa prospettiva in programmi, iniziativa politica e rapporti di massa sufficienti a generare anche un positivo riscontro elettorale.
In questo senso la battaglia condotta a Chianciano per la sopravvivenza del Prc non è ancora né conclusa né vinta. L’aver salvaguardato l’esistenza del partito è stato un risultato fondamentale, che tuttavia può assumere pieno significato solo se viene investito in una nuova stagione di conflitto sociale nelle difficili condizioni determinate dalla crisi.

L’affermazione del nostro ruolo deve articolarsi in tutte le direzioni, tanto nei conflitti quotidiani quanto nella battaglia politica e teorica, in un contesto in cui la sinistra è segnata da una vera e propria babele di linguaggi e analisi. La crisi capitalistica, oltre a porre in termini urgenti la necessità di riarticolare piattaforme programmatiche, metodi di lavoro, forme di lotta e di organizzazione, offre anche la possibilità/necessità di una forte ripresa teorica del marxismo, che può e deve misurarsi a tutto campo contro altre letture della crisi che tendono a negarne il carattere strutturale e sistemico (crisi del liberismo, crisi finanziaria, crisi delle “regole del mercato”, ecc.) e a fornire quindi risposte errate e subalterne a questo o quel settore del capitalismo italiano o internazionale, fenomeno di cui la dilagante “obamamania” è la manifestazione più eclatante, ma non certo l’unica.
Lavoriamo per suscitare una vera e propria rinascita del marxismo nella forma delle letture concrete della crisi, non solo della sua dinamica economica ma anche delle sue ricadute sul piano dei rapporti internazionali, della struttura sociale, del movimento operaio, della morfologia delle classi e del conflitto, ecc. Si tratta di un terreno decisivo per dare al percorso della Rifondazione comunista un respiro e una capacità egemonica all’altezza della sfida.

Uno degli effetti negativi della sconfitta elettorale è la regressione della discussione sul piano delle alchimie organizzative, con un pullulare di proposte disegnate a tavolino che tentano di comporre nelle maniere più disparate i frammenti del centrosinistra e/o della sinistra. È un terreno di dibattito deteriore che respingiamo, in quanto espropria la militanza dalle decisioni reali e la getta in un labirinto di proposte sempre più indecifrabili e inefficaci.
Rifondazione comunista investe innanzitutto sulla propria capacità di inserirsi nel conflitto sociale, dando risposta a quella domanda spesso inespressa ma fortissima di punti di riferimento che possano contribuire all’organizzazione politica, sindacale, sociale dei lavoratori e di tutti i soggetti colpiti dalla crisi e dall’offensiva reazionaria in atto. Non c’è altra strada feconda per valorizzare quanto di buono fatto in questo anno e da ultimo nella campagna elettorale. Il rapporto con le altre forze della sinistra di alternativa va impostato nei termini trasparenti di un patto di unità d’azione, sia su singole battaglie, sia su campagne di carattere generale. Fuori da questo c’è solo una riedizione di percorsi già sperimentati e falliti in anni recenti in Italia e non solo, dalla Sinistra europea in Italia a Izquierda Unida.

L’effetto della battuta d’arresto di Berlusconi ha mascherato solo per pochi giorni la realtà della sconfitta del Pd, accentuata dal risultato delle amministrative. Riemergono tutte le contraddizioni di quel progetto, ma la forma in cui si manifestano non è quella dell’implosione sulla quale molti a sinistra si erano illusi, preconizzando improbabili resurrezioni socialdemocratiche dal Pd o di alcuni suoi settori.
Il voto a sinistra (due milioni di voti in queste europee, ma potenzialmente anche di più) non può essere semplicemente fagocitato dal Pd con una riedizione della “vocazione maggioritaria”. Il risultato elettorale di Sinistra e Libertà fornisce al Pd lo strumento necessario per garantire che il voto di sinistra possa essere mantenuto nell’orbita di un centrosinistra riveduto e corretto. Su questo punto il conflitto fra noi e quanti, a partire da SeL, intendono inserirsi in questa prospettiva rimane aperto non può essere aggirato. La questione delle alleanze anche a sinistra si subordina quindi all’assunzione di una prospettiva strategicamente alternativa al Pd, e non di semplice “autonomia”, al di fuori della quale ci possono essere solo equivoci e una subalternità di fondo.

Della valutazione del nostro risultato negativo deve far parte anche un bilancio dei movimenti che hanno attraversato il nostro paese a partire dallo scorso autunno.
L’offensiva del governo è riuscita finora sostanzialmente ad affermarsi sia contro l’Onda che contro le mobilitazioni della Cgil, della Fiom e del sindacalismo di base. Sarebbe fuorviante attribuire questo esito alla presunta irrappresentabilità del conflitto sociale, tanto più se questa viene declinata in termini puramente elettorali. La risposta va invece cercata analizzando lo scarto drammatico fra la portata dell’attacco da un lato e la inadeguatezza della risposta sul piano tanto programmatico che delle forme di lotta. Questo chiama in causa soprattutto l’opposizione condotta dalla Cgil, che ha scontato in primo luogo la completa inadeguatezza dell’impostazione programmatica (basti ricordare che per tutto l’autunno il gruppo dirigente confederale ha contrapposto a governo e Confindustria la famigerata piattaforma unitaria Cgil-Cisl-Uil per la riforma del modello contrattuale). In secondo luogo si è dimostrata a dir poco insufficiente una pratica conflittuale basata su alcune scadenze generali (lo sciopero generale di dicembre, la manifestazione di aprile), completamente scollegate da una strategia di costruzione del conflitto dal basso, a partire dai punti più critici e potenzialmente più esplosivi. Questi limiti sono resi ancora più drammatici dalla profonda crisi strategica e di riferimenti politici di fondo generata nella Cgil dalla costituzione del Pd.
Le elezioni hanno dimostrato una drammatica assenza di rappresentanza politica del mondo del lavoro, evidenziata dalla capacità di insediamento fra i lavoratori della Lega e, in misura minore dell’Italia dei Valori, a ulteriore conferma delle nostre debolezze su questo terreno decisivo.
Nei prossimi mesi gli effetti sociali della crisi precipiteranno ulteriormente. Di fronte a situazioni di autentica disperazione sociale che si andranno a creare, la lotta, per essere credibile ed efficace, deve assumere necessariamente forme radicali, ad oltranza, di vera e propria resistenza di popolo attorno a quelle aziende e settori che rischiano la desertificazione produttiva e la disgregazione sociale. L’iniziativa del partito va pienamente dispiegata su questo terreno, lavorando sistematicamente e con pazienza alla costruzione dei quei legami politici e sociali che rendano possibile portare il conflitto su questo piano. Non si tratta di voler sopperire volontaristicamente alle difficoltà della fase, bensì di porre nel vivo del conflitto quale esso realmente si manifesta (e non solo in un dibattito pubblico più o meno anestetizzato, o in occasione di scadenze generali) il ruolo che come partito vogliamo svolgere, ma anche tutti i nodi irrisolti nella posizione degli altri soggetti in campo: sindacati, forze politiche, ecc.

È sempre presente il rischio di un ripiegamento ulteriore della Cgil. Il nuovo attacco all’articolo 18 targato Pd (le proposte di “contratto unico” di Boeri e Ichino) hanno trovato aperture nel vertice confederale che rischiano di segnare pesantemente l’avvio del dibattito congressuale, ormai prossimo. Sarà quindi inevitabilmente un congresso di contrapposizione, nel quale anche le posizione critiche, dalla Fiom alle aree di sinistra, verrano messe di fronte a una prova assai severa. Esistono chiari segni di un profondo disorientamento di settori di quadri sindacali, a partire da quelli che hanno vissuto con insofferenza crescente la rottura con Cisl e Uil, fino a quelli che cercano le più improbabili sponde politiche per dare una risposta, inevitabilmente burocratica e a perdere, alla profonda crisi di strategia della confederazione. Si tratta di un passaggio decisivo per le sorti del conflitto di classe nel nostro paese, al quale il Prc deve guardare molto da vicino e sul quale va organizzato uno specifico dibattito nel partito e fra tutti i lavoratori a noi vicini. Tale discussione va inserita nell’elaborazione di una più complessiva strategia di intervento sindacale del nostro partito tanto verso la Cgil che verso i sindacati di base.

Il partito necessita di una profonda riorganizzazione. Non possiamo più permetterci un funzionamento e degli assetti interni che troppo spesso vanificano e disperdono lo sforzo generoso dei nostri militanti.
Le decisioni assunte lo scorso autunno, quando abbiamo stabilito responsabilità e assetti nazionali, in larga parte non hanno prodotto i risultati necessari. Il nostro assetto fatto di ben 49 dipartimenti nazionali strutturati in 6 aree facenti capo ad altrettanti membri della segreteria, si è dimostrato elefantiaco, poco produttivo e viziato dall’equilibrismo delle componenti che rende scarsamente esigibile un bilancio trasparente del lavoro svolto. Permangono invece distacco fra gruppo dirigente e corpo del partito, autoreferenzialità, prevalere di una concezione distorta e spesso d’immagine e “convegnistica” della funzione dirigente.

Va difeso il ruolo politico delle diverse aree che compongono il nostro partito, che permettono che il nostro dibattito sia esplicito e riconoscibile. Tuttavia questo non può diventare lo schermo che rende illeggibile il funzionamento del partito, il rischio è che si stabilisca sempre una reciproca assoluzione fra componenti che di fatto rende impossibile un funzionamento sano e corretto della nostra struttura.
Vanno completamente riorganizzati tanto i dipartimenti, riducendone il numero, che la stessa Direzione nazionale. Dobbiamo selezionare i responsabili in una discussione trasparente su quanto fatto fin qui.
La nuova Direzione nazionale va costruita in modo che chi ha responsabilità nazionali ne faccia obbligatoriamente parte, pur mantenendo le proporzioni fra le aree politiche, la presenza di territori, ecc.
Il nord del paese non è una realtà geografica, ma politico-sociale, nella quale siamo in forte sofferenza e dalla quale non possiamo prescindere se vogliamo costuire un partito in grado in futuro di sfidare con efficacia tanto l’egemonia berlusconiana e leghista che le suggestioni del “Pd del nord” e i potenti blocchi di potere che innervano entrambi questi schieramenti.

Già dalle prossime settimane e mesi ci attendono scadenze importanti.
– Il referendum truffa del 21 giugno, sul quale è necessario condurre una campagna astensionista politicamente qualificata, in particolare contro la posizione ultra-maggioritaria assunta dal Pd.
– Riguardo all’iniziativa contro la crisi economica, oltre alle campagne nazionali già avviate (salario sociale, ammortizzatori sociali, intervento pubblico, nazionalizzazione del credito, petizione, ecc.) è necessario individuare in tutti i territori alcuni punti chiave di crisi industriale e produttiva, attorno ai quali avviare un intervento sistematico a 360 gradi, fatto di presenza quotidiana, elaborazione di piattaforme e proposte specifiche, momenti di unificazione (coordinamenti di aziende in crisi, comitati territoriali di sostegno alle vertenze occupazionali, ecc.). Dobbiamo porci l’obiettivo di dislocare il partito attorno ad almeno un centinaio di queste realtà su tutto il territorio nazionale, intrecciando circoli, federazioni, livello nazionale, gruppi di intervento specifici, ecc.
– Sulla base di questo lavoro va anche preparata in tempi brevi la conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori.
– la questione della ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, alla quale si somma la provocazione di convocare il G8 all’Aquila, rende necessaria non solo la risposta in termini di manifestazioni di protesta, ma anche di elaborazione di una proposta complessiva che a partire dalla situazione abruzzese parli a tutte le realtà in conflitto sul territorio (No Ponte, No Tav, ecc.) nella prospettiva di una battaglia nazionale contro le grandi opere speculative e per una forte politica pubblica legata alla tutela e alla messa in sicurezza del territorio degli insediamenti.

Su questi punti il Cpn chiama tutte le federazioni a confrontarsi sia internamente al partito, convocando organismi dirigenti e attivi degli iscritti, sia esternamente, con tutte le forze disponibili, a partire da quelle che hanno condiviso con noi l’esperienza della lista comunista.

Claudio Bellotti,
Alessandro Giardiello
Marco Veruggio
Sonia Previato
Patrizia Granchelli
Mario Iavazzi
Ali Ghaderi
Lidia Luzzaro
Antonio Santorelli
Jacopo Renda
Andrea Davolo
Dario Solvetti

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