Guido Rossi su Repubblica ha detto che l’Italia è una grande Chicago anni ’20, dove «invece del fare c’è l’arraffare». Concorda?
Mi sembrano espressioni un po’ forti. Sui manager ho scritto libri e giudizi abbastanza critici. Però come è già successo nello scandalo Parmalat o dei bond argentini il gridare alle colpe dei manager, anche se corretto, rischia di distrarre dalle vere questioni di fondo. I problemi del capitalismo italiano derivano sicuramente dal comportamento di singoli ma soprattutto da una quasi totale carenza dello stato, da parecchi governi che per anni hanno guardato dall’altra parte e da una pessima legislazione sulle società.
Più che un declino lei dipinge quasi un cedimento strutturale.
I problemi sono due: uno stato azionista in molti casi come minimo inefficace e le leggi che permettono di accedere a grandi capitali con piccoli mezzi. L’acquisto di grandi aziende con un effetto leva che può essere anche di un euro a 100 mi pare uno strumento quasi architettonico più che economico. Però questo è un tipo di capitalismo che negli ultimi decenni è stato glorificato da molti, a cominciare per essere chiari dal Sole 24 ore. L’Italia ha due primati mondiali: da un lato ha fatto privatizzazioni per quasi a 95 miliardi di euro, dall’altro non ha mantenuto strumenti di gestione e di controllo che permettessero di far far fronte a scalate o a rendite improprie. Anche France Telecom e Deutsche Telekom sono state privatizzate ma lo stato ha conservato o direttamente o indirettamente attraverso una sorta di Cassa depositi e prestiti quote tali da far perdere a chiunque la voglia di scalarle. Perfino gli inglesi, i più liberisti, hanno mantenuto sotto il controllo pubblico la rete. Solo l’Italia ha privatizzato e rinunciato a qualsiasi regolazione.
Termini come «proprietà», «gestione» e «controllo» sono i paletti attorno ai quali ruota il destino di Telecom. Lei che suggerisce?
Per me se lo stato è azionista poi deve essere in grado di farlo. Quindi se non vuole più intervenire nella gestione deve perlomeno essere in grado di nominare manager capaci e di lasciarli lavorare. Abbiamo due aziende a forte partecipazione pubblica che dal punto di vista etico e politico non sono molto gradevoli ma guadagnano e funzionano benissimo: Eni e Finmeccanica. Su Alitalia e Ferrovie invece lo stato ha riversato i propri conflitti e interessi politici ed elettorali con il risultato di provocare due disastri.
Ma le grandi reti «non duplicabili» come autostrade, ferrovie, gas e telecomunicazioni devono restare o no in mano allo stato?
Nei settori strategici lo stato deve conservare una qualche forma di controllo o un dispositivo tipo «golden share» che permetta di evitare che la rete sia svenduta. Nulla di diverso da quello che hanno fatto gli inglesi. Se Telecom finisce nelle mani sbagliate può andare molto peggio di ora con una frammentazione incontrollata molto dannosa. E’ già accaduto. L’Ansaldo era grande quasi come la Siemens prima che la lasciassero su quel libero mercato che poi l’ha fatta a pezzi.
Quindi anche lei è contrario a società «spezzatino» come suggerisce Prodi sul Sole 24 Ore?
Della rete le ho detto. Ma anche la separazione tra telefono fisso e mobile oggi è veramente insensata. Le sto parlando dalla Francia, da un «normale» telefono mobile collegato alla rete fissa. Non si sa dove inizi una e finisce l’altra. E poi se c’è qualcosa in cui esiste un interesse nazionale sono proprio le telecomunicazioni. Tedeschi, francesi e anche americani non lascerebbero mai che una loro grande società di Tlc passasse in mani straniere. Per le reti di telecomunicazioni ormai passa di tutto, sono il sistema nervoso della nostra società.
Ma in Italia, come accusa il presidente del consiglio sul Sole non c’è nessuno che può mettere in piedi «una proposta industriale» per gestire la Telecom?
E’ vero. Ma Telecom vuol dire anche 38-40 miliardi di debiti ed è logico che tutti ci vadano piano. In pochi però considerano una misura secondo me molto significativa. Olimpia ha il 18% di Telecom ma gli investitori istituzionali tutti insieme sono quelli che ne hanno di più: intorno al 38%. Qui si dovrebbe andare più a fondo, mi piacerebbe sapere chi sono e quanti sono. Se quel 38% è diviso tra 10 o 15 fondi la questione cambia. La Parmalat oggi è controllata da 8-10 fondi che si sono accordati tra loro. Fondi pensione e fondi di investimento del resto sono i veri padroni dell’economia globale: controllano o possiedono più della metà della grande industria del mondo.
Un problema di democrazia?
Certamente: sono al massimo 200 i fondi che contano davvero. E hanno patrimoni complessivi di molte migliaia di miliardi di dollari.
Si è detto che con le grandi privatizzazioni sarebbe diminuito il debito pubblico e migliorata tutta l’economia. Non è accaduto così, come ricordava Duccio Valori sul manifesto di ieri. Perché?
Nelle nostre università si sono studiate moltissimo le privatizzazioni inglesi e pochissimo quelle italiane. Ma se si pensa in termini di qualità del servizio, costi, trasparenza e tariffe, le nostre sono andate sicuramente peggio. Aggiungo però che qualche spiritoso del ministero dell’economia inglese ha proposto di recente un master in «orari delle ferrovie britanniche». Tra 11 gestori come fanno i viaggiatori a scegliere davvero il migliore?
Le giro alcune polemiche. Le coop gestiscono i Cpt e le banche possiedono di tutto. Non le sembra un mondo al contrario?
A parte il caso specifico delle cooperative, questi sono i risultati della finanziarizzazione dell’economia mondiale, dove produrre beni e servizi reali è diventato molto meno importante che fare montagne di quattrini in borsa. Ma è un risultato a cui hanno contribuito tutti. Gli stessi che dicevano che era questa la vera globalizzazione ora scoprono che i manager sono incapaci. Ahimè non è così. Questa non è una patologia manageriale è una patologia della normalità.
Per dirla con Valentino Parlato: vuol dire che «il capitalismo è irriformabile»?
E’ stato riformato più volte. E’ più corretto dire che bisogna cambiarlo un’altra volta. Negli anni ’70 si fece: con la riduzione degli orari di lavoro a parità di salario, il sabato festivo e lo stato sociale è migliorato il livello di vita. Negli Stati uniti due presidenti entrambi di nome Roosevelt hanno salvato il capitalismo. Il primo all’inizio del ‘900 con i vincoli durissimi nel controllo delle ferrovie. L’altro quando tirò fuori il paese dal dramma del ’29. Il capitalismo è stato riformato. Il problema è che ci hanno spacciato questo come l’unico capitalismo possibile. Riformarlo di nuovo è indispensabile. Ma questa è una storia troppo lunga per raccontarla qui.