Quando è troppo è troppo.
Come ho già scritto al direttore di Liberazione in merito a un articolo di Claudio Grassi sul mio ultimo libro, Uscire dal Novecento, sono un uomo mite. Credo anche tollerante. Nel confronto culturale ammetto quasi tutto, anche l’invettiva, persino la scomunica (ne ho appena ricevuto una da Pintor su questo stesso giornale, e non me la sono presa più di tanto). Ho scritto un libro volutamente provocatorio e doloroso (innanzitutto per me stesso) sul secolo passato e sulla nostra storia, con l’idea fissa che quella porta comunque dovesse essere aperta, senza rimozioni o timori reverenziali. Figuriamoci se m’infastidiscono le critiche anche aspre. Le considero al contrario una risorsa preziosa. Ma una cosa non la sopporto, e credo dovrebbe essere con rigore bandita: la falsificazione consapevole delle idee altrui. La costruzione di comodo di una falsa posizione dell’avversario, scelto di volta un volta come oggetto di una campagna offensiva, per poterlo più facilmente stroncare. Con ogni mezzo. E in modo tanto più feroce quanto più è politicamente vicino.
Ora leggo sulle pagine del manifesto un articolo (che pare scritto dalla stessa mano), in cui Alberto Burgio ripete, in forma un po’ più articolata (ma neanche tanto) la medesima accusa: l’assimilazione tra le mie posizioni e quelle del “revisionismo storico”; l’identità tra la mia lettura del Novecento e quella delle correnti più aggressive della destra culturale e politica; l’accusa sottintesa, dunque – che francamente mi suona un po’ ridicola – di “fascismo” o di contiguità con esso… Ho scritto decine di pagine del libro per criticare alla radice il paradigma del “revisionismo storico”. Ho scritto più di un capitolo contro il modello di storiografia, il metodo e le conclusioni – fattuali e ideologiche – del Libro nero del comunismo. Ho sostenuto fino alla noia (mia e del lettore) che tra comunismo e fascismi passa una differenza fondamentale, che li rende tra loro non solo non assimilabili ma neppure confrontabili, poiché l’uno (il fascismo, in particolare la sua versione nazional-socialista) ha incarnato una forma di “male assoluto” in cui mezzi distruttivi e fini abominevoli hanno coinciso perfettamente, mentre l’altro (il comunismo nella sua forma novecentesca) ha prodotto una tragedia storica in cui fini nobili ed emancipatori sono stati negati e rovesciati dal predominio di mezzi inumani. Tutto inutile. Burgio denuncia, senza vergogna, “la piena consonanza tra la lettura del Novecento compiuta da Revelli e le tesi fondamentali del revisionismo storico” – precisando, a scanso di equivoci: “nella versione di Nolte e Furet”. E aggiungendo, incredibilmente: “una consonanza che Revelli non occulta, anzi proclama” (esattamente così: leggere per credere!), per concludere, infine, in un crescendo, che, per Revelli “il comunismo è stato il fratello siamese del fascismo e dei due il più malvagio” (sic!).
So che potrei anche compiacermene, perché questa è in fondo la prova vivente della validità della mia analisi sugli aspetti più deteriori di un certo tipo di militanza. So che dovrei mettere gli scritti di Burgio-Grassi in una teca di vetro, e conservarli amorevolmente perché offrono (in forma certo farsesca dopo tante tragedie) in filigrana il profilo quasi paradigmatico del metodo politico (e della figura idealtipica) che speravo ormai di poter solo studiare: la medesima inquisizione sulle idee e sulle responsabilità oggettive di chi le propone, al di là delle intenzioni e delle parole stesse di chi le ha formulate; lo stesso richiamo all’immagine del complotto che starebbe “dietro” alle idee, della connivenza col nemico, della convergenza oggettiva e dell’uso politico che quello ne può fare; la sovrapposizione retorica della maschera del nemico (o quantomeno dell’avversario) al volto fino a ieri amico (anzi, compagno); la concezione secondo cui i prodotti culturali servano a strutturare eserciti, correnti, partiti e frazioni di partiti e non a innescare, al contrario, circuiti di confronto, dubbi, persino contaminazioni. E infine, il grido d’allarme: non aprite quelle pagine! Fermate il contagio. La lettura può essere pericolosa…
Potrei, dicevo, compiacermene, se non fosse per i lettori del manifesto, che ricevono così un’informazione falsificata, deformata, ridotta a strumento di microbattaglia politica di basso profilo. E’ un peccato per chi crede in un giornale non conformista né bigotto che sia all’opposto palestra di libera ricerca e critica.