Disoccupato uccide per un posto (è solo un film)

Venerdì esce uno di quei film che non bisogna rifare a casa: troppo pericoloso. No, non è un film di arti marziali, o di sport estremi. Il pericolo non consiste nella possibilità di rompersi qualche osso. Il film si intitola Cacciatore di teste ma non parla dei dayaki del Borneo, quelli che nei romanzi di Salgari collezionavano i crani dei nemici. Il «cacciatore» del titolo è un manager disoccupato. Le teste alle quali dà la caccia sono quelle dei suoi possibili rivali per un ambitissimo posto di lavoro. Bruno Davert è un chimico nel settore cartario. È stato licenziato dopo 15 anni di lavoro ad alto livello. Ristrutturazione, o «terziarizzazione» (non chiedeteci che diavolo significa). Ha poco più di 40 anni, una moglie, due figli, una bella casa: un ménage tranquillo, borghese, ovvio, ma per tenerlo in vita ci vuole un bello stipendio. Bruno ha individuato il lavoro che fa per lui, ma per ottenerlo deve passare sui cadaveri di altri cinque disoccupati con un curriculum uguale, o migliore, del suo. Letteralmente. Bruno li individua, li studia, li pedina… e li fa fuori. Il manager disoccupato diventa un serial-killer.

Cacciatore di teste si ispira al romanzo The Ax, di Donald Westlake. È il sedicesimo film di Costa Gavras, regista di origine greca, francese di adozione, attivo anche a Hollywood: una specie di Onu ambulante che da sempre ha fatto del «cinema civile» la propria bandiera (qualche titolo: Z l’orgia del potere, La confessione, Music Box, Amen). È un film incredibile. Duro, spietato, avvincente. Bellissimo. Bruno Davert è interpretato dal franco-spagnolo José Garcia, molto bravo. Costa Gavras sostiene che è il nuovo Jack Lemmon (gli somiglia molto) e pochi potrebbero dirlo meglio di lui, che ha diretto il grande Jack in uno dei suoi migliori ruoli drammatici (il film era Missing, storia di un bravo cittadino americano che si reca nel Cile di Pinochet alla ricerca del figlio scomparso).

Effettivamente, Cacciatore di teste potrebbe essere la versione horror e new-economy dell’Appartamento di Billy Wilder: là un piccolo impiegato di New York faceva carriera concedendo il proprio alloggio come garçonniere per le scappatelle dei suoi superiori, qui un manager disoccupato concepisce il folle piano di uccidere i suoi possibili rivali. E sarà davvero un piano folle, poi? In realtà Bruno non fa che applicare a se stesso i principi dell’ottimizzazione del lavoro: «I miei nemici sono gli azionisti – dice – è per far guadagnare loro che le aziende tagliano i posti di lavoro. Ma come faccio ad ammazzare migliaia di azionisti? È più semplice ammazzare cinque disgraziati che sono stati licenziati come me e, come me, ambiscono a quell’unico impiego». La logica è quella della guerra fra poveri. Solo che questa è una guerra fra benestanti che non vogliono mollare, che per tenersi stretti i simboli del benessere (l’auto, la villa, lo schermo al plasma, la playstation dei figli…) sono pronti ad uccidere.

Il film di Costa Gavras è profondamente hitchcockiano, perché si basa su uno dei meccanismi narrativi più cari a Hitchcock: l’empatìa per il cattivo. Capiamo fin dalla primissima sequenza che Bruno è un gran figlio di puttana, eppure non possiamo fare a meno di trepidare per lui, di augurarci che i suoi delitti (eseguiti in modo molto goffo, da «non professionista»: che diamine, è un chimico, mica un killer!) vadano a buon fine e che la polizia non lo becchi. La tensione è ininterrotta, e si esce dal film psicologicamente devastati da questa «complicità» con l’assassino. Eppure, i riferimenti che vengono alla mente – oltre a Hitchcock – sono tutti comici: dopo Wilder, Chaplin. Cacciatore di teste è un Monsieur Verdoux della globalizzazione. Dice Costa Gavras: «Il personaggio di Chaplin in Monsieur Verdoux uccideva le donne per mantenere sua moglie e la sua piccola esistenza. Non aveva alcun dubbio morale: milioni di persone erano appena state uccise nella prima guerra mondiale, e gli era stato detto che era necessario. E perché mai le regole che governano la guerra dovrebbero essere diverse per lui? Bruno è come la società in cui viviamo, dove nessuno si pone dilemmi morali sulle conseguenze della perdita di un posto di lavoro. Non è un serial-killer pazzo, non uccide donne o ragazzine o bambini. È un dirigente che diventa un serial-killer per ragioni che non hanno nulla a che vedere con i sentimenti o con gli impulsi sessuali. Uccide per ragioni logiche e pragmatiche. Si è messo in proprio e combatte una sua guerra economica. Però, in una società evoluta come la nostra, sceglie una soluzione primitiva. Diventa un predatore».

Effettivamente, la lettura animalesca – etologica, o addirittura behaviorista – è del tutto legittima. Bruno fa parte di un branco. Il maschio Alfa è l’uomo che detiene il lavoro desiderato dagli altri. Bruno combatte per diventare maschio Alfa a sua volta. Nelle tribù di babbuini o nei branchi di leoni non va poi così diversamente. Forse la morale di Cacciatore di teste è proprio questa: la globalizzazione ci ha reso bestie. Ma bisogna stare molto attenti ad insultare le bestie paragonandole agli uomini. Fra i babbuini e i leoni, i maschi si combattono per il comando, ma la lotta è in buona misura rituale e si interrompe prima che uno dei contendenti muoia. Tra gli uomini, si va fino in fondo. Si ammazza sul serio (e non rifate Cacciatore di teste a casa. Nemmeno se, Dio non voglia, siete disoccupati).