Discutere Israele

“Autodafé – L´Europa, gli ebrei, l´antisemitismo”: un saggio di Emanuele Ottolenghi

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La questione palestinese non è altro, come dice un famoso islamista, Bernard Lewis, «che un randello per poter picchiare gli ebrei»? A me la frase sembra assai infelice. Ma Emanuele Ottolenghi deve pensare che sì, proprio di questo si tratti: i palestinesi come un puro pretesto per scagliarsi contro Israele. L´imballaggio entro il quale dissimulare la vera natura, cioè a dire l´antisemitismo, delle critiche ad Israele. Questo è infatti l´argomento centrale del suo libro Autodafé – L´Europa, gli ebrei, l´antisemitismo (Lindau, pagg. 380, euro 24). Nel quale descrive il crescere dell´ondata antiebraica cui stiamo assistendo nei nostri paesi, dicendosi certo che il nuovo antisemitismo emerge da «un´atmosfera particolarmente critica e ostile nei confronti d´Israele, creata a bella posta da mezzi d´informazione e opinionisti».
Che esistano ormai un pregiudizio e un´atmosfera anti-israeliani, è certo. Basta pensare agli idioti in keffia che spuntano così di frequente nelle piazze europee a scandire slogan pro-palestinesi e bruciare le bandiere d´Israele, o peggio ancora, al tentativo venuto da alcune università inglesi (e opportunamente bloccato dal governo Blair) di chiudere le porte ai docenti israeliani. E questo tralasciando gli episodi più infami, dagli scempi nei cimiteri ebraici alle bombe contro le sinagoghe. Il punto, quindi, non è la risorgenza d´un antisemitismo che adesso si presenta quasi sempre in veste d´antisionismo. Il punto sta nell´accertare se davvero, come sostiene Ottolenghi, questa atmosfera mefitica sia stata «creata a bella posta» dai giornali e televisioni dell´Occidente.
Se Ottolenghi avesse ragione, vorrebbe dire che decine e decine di reporters e commentatori d´ogni paese dell´Occidente hanno guardato in questi anni a quel che avviene nei Territori occupati, con una sola intenzione: diffamare, demonizzare Israele. Che la condotta dei governi e dell´esercito israeliani nella Palestina occupata, non ha nulla a che fare con le critiche dei «mezzi d´informazione e degli opinionisti» alla politica d´Israele. Il fatto che quei giornalisti abbiano visto da vicino le cannonate o i missili aria-terra contro le abitazioni civili; che abbiano appreso degli indebiti espropri di terre, delle deviazioni di acque a favore degli insediamenti ebraici, e dei coloni israeliani che spiantano (senza mai essere trascinati in un tribunale) gli ulivi dei palestinesi; che abbiano letto sugli stessi giornali di Tel Aviv e Gerusalemme dei maltrattamenti di vecchi e donne ai posti di blocco, tutto questo non conta. A sentire Ottolenghi, la sola cosa certa è il subdolo intento con cui reporters e commentatori hanno voluto creare «un´atmosfera particolarmente critica e ostile nei confronti d´Israele». Una conclusione evidentemente inaccettabile.
Autodafé è un libro utile, perché al pari d´altri libri pro-israeliani ricorda a chi tende a dimenticarlo, che Israele è stato molte volte costretto dalla storia (la sua storia, e quella della regione) a usare la forza. A fidarsi essenzialmente della sua capacità militare, perché a questo lo obbligava la pervicacia dell´ostilità araba: ostilità che è precedente, conviene ricordarlo, all´occupazione della Palestina nel ‘67. Questo è vero, e non a caso tanti critici della politica israeliana hanno nel luglio scorso pienamente giustificato, avallato, la risposta militare di Tsahal in Libano. Ma resta che i libri pro-israeliani non riescono a trovare l´equilibrio necessario a spartire le responsabilità d´un sessantennio di fallimenti sulla strada della pace in Palestina, e le attribuiscano invece tutte agli arabi. Così come resta che a leggere quei libri sembra che ogni critica dei «media» occidentali ad Israele porti le macchie della melma antisemita.
Ho trovato molto interessante quel che Ottolenghi dice degli «intellettuali radicali ebrei» o ebrei-israliani: della loro tendenza a non perdonare alcunché ai governi di Gerusalemme, gareggiando addirittura con i più focosi dei critici non israeliani. E´ vero anche questo. Forse perché per molti mesi all´anno girano da una all´altra delle grandi università europee e americane, gli intellettuali israeliani di maggior prestigio sono portati ad accentuare le loro riserve e rampogne nei confronti della politica d´Israele. Essi vogliono farsi accettare, come dice Ottolenghi, quali «ebrei buoni» a petto dei «cattivi israeliani»? Preferisco non esprimere una mia opinione, lasciando l´onere del giudizio, per ora, ad Ottolenghi. Ma pongo un paio d´interrogativi.
Quando in Israele vado ad informarmi negli uffici di B´Tselem, un´organizzazione che rileva le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati, non ci trovo intellettuali. Trovo persone giovani, uomini e donne, che con pochi mezzi e una forte spinta morale sentono il dovere di non perdere di vista le violenze perpetrate nelle città e nei villaggi palestinesi. Sono loro, per esempio, che hanno messo insieme le cifre delle vittime nel 2006: 23 israeliani (17 civili, 6 soldati) e 660 palestinesi. Metà dei quali (tra cui 141 donne e bambini) non prendevano parte agli scontri tra milizie ed esercito d´Israele.
Il primo interrogativo è quindi questo: cosa hanno a che fare i giovani di B´Tselem con i sofisticati intellettuali di cui parla Ottolenghi, a chi si rivolge il loro lavoro se non alla coscienza collettiva d´Israele?
E un altro interrogativo. Formata da ex militari che hanno operato nei Territori, l´organizzazione Rompere il silenzio va denunciando da qualche mese i soprusi compiuti contro i civili palestinesi (già 400 testimonianze raccolte). Ora: questi giovani riservisti subiscono forse, come può succedere agli intellettuali in visita nelle università occidentali, il pregiudizio anti-israeliano dell´«intellighentsia» euro-americana? Io penso di no: quegli ex soldati non sono intellettuali, non vogliono presentarsi come «ebrei buoni» rispetto agli «israeliani cattivi». Intendono solo testimoniare che un paese democratico come Israele, un popolo con un profondo, dolente senso morale com´è il popolo degli ebrei, non dovrebbe infliggere ai palestinesi le dure prepotenze che vengono invece compiute ogni giorno in Palestina.
Ottolenghi non si sbaglia, invece, quando sostiene che nei media occidentali esiste ormai una tendenza a dare più risalto alle rappresaglie israeliane che non alle minacce portate contro Israele: dai razzi Qassam lanciati sul Negev, agli attentatori suicidi arrestati ogni tanto dai servizi di sicurezza israeliani.
Sì, anche questo è vero. Ma non sarebbe giusto concludere che ciò dipende, invece che dall´intento di demonizzare Israele, dalle dimensioni e frequenza delle azioni violente compiute dagli uni e dagli altri? Dal fatto, per intenderci, che l´anno scorso sono stati uccisi 660 palestinesi e 23 israeliani?
Un ultimo appunto. Ottolenghi fa notare come molti commentatori europei e americani si servano delle critiche che all´interno d´Israele la stampa «liberal» o di sinistra, e la maggior parte degli intellettuali, rivolgono ai loro governi. E se ne servano per coprire, legittimare il loro pregiudizio negativo nei confronti di Israele. Anche qui, non capisco come all´autore di Autodafé non venga in mente che il ricorso alle critiche interne allo stesso Israele ha avuto un altro fine che non quello di «coprire» l´antisemitismo della stampa occidentale.
Il fine di dimostrare che non tutti gli israeliani erano d´accordo con i Netanyahu, con gli Sharon, con la classe politica che negli ultimi dieci anni ha man mano provocato – a furia d´inutili violenze, e brusche frenate ogni volta che si delineava una possibilità di trattativa – l´isolamento d´Israele nelle opinioni pubbliche occidentali. Era questo, infatti, che i giornalisti volevano mettere in luce: che ci sono israeliani favorevoli al dialogo con i palestinesi, mortificati per le umiliazioni e le violenze che i palestinesi subiscono ogni giorno, e impazienti di veder avviarsi il negoziato che fisserà i confini dello Stato ebraico, le garanzie della sua sicurezza, la difficile – ma non impossibile – coesistenza dei due Stati.