Disaccordo balcanico

Deve essere stata considerata la settimana più propizia – il decennale della pace di carta di Dayton – per inviare nei Balcani il negoziatore speciale dell’Onu Martti Ahtisaaari per consultazioni sulla pace di Kumanovo del giugno 1999 che pose fine allla campagna di bombardamenti «umanitari» della Nato. In quell’accordo le cancellerie occidentali sottoscrivevano, poi anche in sede di Consiglio di sicurezza Onu, l’«intangibilità dell’integrità territoriale» della Serbia-Montengero erede legale della mini-Jugoslavia. Ora le stesse cancellerie, misconoscendo quegli impegni, puntano all’«inevitabile» indipendenza del Kosovo. Tacendo sull’inferno dei serbi nel Kosovo sotto occupazione Nato e amministrazione Unmik: cacciati in 200.000, con 150 monasteri ortodossi incendiati e rasi al suolo, più di 1.300 serbi e rom uccisi (l’ultima strage è di sei giorni fa, a Strepce con una bomba nel mercato), altrettanti i desaparecidos. Certo che senza serbi, l’indipendenza è inevitabile. Ma il silenzio peggiore che arriva dalle leadeship occidentali è quello che riguarda la profonda interdipendenza tra le «paci» irrisolte. Da una parte il disastro della Bosnia Erzegovina con accordi inapplicati dopo dieci anni. Gli Stati uniti in questi giorni sono corsi ai ripari. Tutta la presidenza tripartita bosniaca è stata convocata a Washington da Condoleezza Rice. Sarebbe stato raggiunto un accordo per istituzioni comuni, ma il conflitto tra serbi (che aspirano ad unificarsi a Belgrado), croati che vogliono l’autonomia e musulmani al governo a Sarajevo, resta. Comunque sia per la Bosnia resta fermo il principio di una soluzione che salvaguardi le tre etnie e confessioni nelle istituzioni fin qui acquisite, per una integrazione unitaria addirittura nell’Ue – forse nel 2014.

Invece per il Kosovo l’Occidente si prepara ad avallare una indipendenza kosovaro-albanese frutto di una contropulizia etnica gestita da milizie armate ben conosciute – ex Uck, ora Ana o Kia, sempre “esercito d’indipendenza del Kosovo” – , sopportate e supportate dalle stesse forze militari della Nato a cui del resto l’ex Uck ha fatto da fanteria nella guerra. Le stesse milizie che in questi giorni presidiano con posti di blocco nella Drenica, cuore delle azioni armate sei anni fa del «premier» Ramush Haradinaj (incriminato all’Aja per stragi contro i serbi, ma libero di far politica), le stesse milizie che minacciano di morte la delegazione ufficiale kosovaro-albanese «se tradirà». Mentre il leader Ibrahim Rugova sta di fatto morendo.

Così il «mediatore» Ahtisaari – che si è più volte detto favorevole all’indipendenza – prima è stato a Pristina dove ha recepito i proclami indipendentisti dei leader locali sordi però agli «standard di democrazia e rispetto delle minoranze». Incontrando anche i pochi serbi rimasti in Kosovo «pronti a lasciare la regione» di fronte all’indipendenza. Poi ieri è arrivato a Belgrado accolto dal presidente Boris Tadic e dal premier Vojslav Kostunica, che guideranno la delegazione serba agli imminenti – ma nessuno sa quando, come e se cominceranno – negoziati sullo status definitivo della regione. Presidente e premier erano forti del voto quasi unanime del parlamento serbo che si è espresso contro l’indipendenza e per l’impegno a trattare solo su «meno indipendenza, più autonomia». E’ la posizione che con forza ha espresso ieri Kostunica ad Ahtisaari, avvertendo che Belgrado considererebbe l’eventuale riconoscimento di un Kosovo indipendente «nullo e illeggittimo». Il presidente Tadic ha abbozzato una proposta di «cantonalizzazione», respinta dall’Occidente e da Pristina, precisando tuttavia che l’«apertura» non deve mettere in discussione il fatto che «il Kosovo è Serbia». Fatto singolare, nel giorno del pronunciamento del parlamento serbo, all’unanimità a favore dell’indipendenza del Kosovo si è espresso il parlamento di Tirana. E pensare che la rivista LiMes invita a non semplificare sulla Grande Albania.

Oggi l’inviato dell’Onu incontrerà il patriarca serbortodosso Pavle, se possibile più radicale della leadership politica, visto che la «Metohja» (Terra della chiesa), il Kosovo dei monasteri, è considerata non a torto la culla della cultura e della religione ortodossa. Restano all’Occidente due mosse: la minaccia della secessione del Montenegro dalla Serbia guidata dal premier Milo Djukanovic incriminato per mafia e contrabbando all’inizione dell’anno in Italia; e l’annuncio «puntuale», anche stavolta, del Tribunale dell’Aja pronto a stralciare il dossier Kosovo per condannare subito Milosevic. Peccato che sulle stragi dei raid della Nato tra la popolazione civile jugoslava e su quelli dell’Uck, la Del Ponte si sia mostrata assai poco puntuale.