Contratti con Cina, India, Russia e prezzi di favore ai Paesi latinoamericani
Terzo esportatore di greggio tra i paesi Opec e quinto a livello mondiale, secondo fornitore degli Stati Uniti d’America, il Venezuela occupa il quinto posto per riserve mondiali di petrolio calcolate in 77 miliardi di barili, e il secondo per disponibilità di gas. I maggiori giacimenti sono nello Stato di Zulia al confine con la Colombia. Le ultime stime delle riserve nell’area del delta del fiume Orinoco fanno supporre un sottosuolo secondo, per ricchezza, solo a quello dell’Arabia saudita. Un primato mondiale è garantito a Caracas dal cosiddetto petrolio pesante commercializzato con il nome di “Orimulsion”, una sostanza a basso impatto inquinante destinata a sostituire nel lungo periodo il carbone per la produzione di energia elettrica e che ha da tempo trovato a Pechino acquirenti entusiasti.
Le carte giocate negli ultimi sei mesi dal governo Chavez mostrano una politica estera interamente affidata alla diplomazia del petrolio e gli accordi siglati, a ritmi vorticosi, dall’impresa statale del greggio venezuelano (Pdvsa), scardinano la tradizionale architettura delle esportazioni di Caracas che ha il suo centro di gravità nel mercato statunitense, tuttora acquirente del 60% del greggio venezuelano, per sostituirla con un nuovo sistema di export, a geometria variabile, con cui Hugo Chavez sembra volersi conquistare un ruolo da battitore libero nello scacchiere internazionale.
Contratti per la fornitura di petrolio alla Cina e all’India. Singapore, Corea e Giappone corteggiati come clienti di riguardo da coltivare per il prossimo futuro. Una politica di prezzi di favore verso i Paesi latinoamericani e il miraggio di un’impresa pubblica continentale del petrolio per ridisegnare gli equilibri nel mercato mondiale. Costante gioco di sponda con l’Iran nell’Opec, un ruolo esplicito nell’organizzazione che riunisce i principali Paesi produttori di greggio per rivendicare la politica del «prezzo alto» inteso come «prezzo giusto» e la disponibilità a prendere in considerazione l’utilizzo dell’euro al posto del dollaro nel mercato dell’oro nero.
Il petrolio di Pdvsa è il perno di ogni relazione internazionale venezuelana. E’ il greggio che ha consentito a Caracas di trattare da una posizione di relativa forza l’entità degli investimenti cinesi in Venezuela e di imporsi come alleato obbligato per la potenza continentale brasiliana.
Anche se è stata la visita autunnale del presidente cinese a Caracas e il recente acquisto di ferri vecchi militari dalla Russia a destare scalpore in Europa, i più consistenti cambiamenti nella politica estera Chavez li ha realizzati dentro il continente latinoamericano attraverso un opportunistico utilizzo delle intese bilaterali per l’acquisto di greggio regolate dall’Accordo Energetico di Caracas del 2000. Quell’accordo permette ai principali paesi sudamericani di ricevere forniture a prezzi più bassi rispetto a quelli di mercato e, soprattutto, con pagamenti a lunghissimo termine. Il trattamento di favore non è riservato alla sola Cuba (alla quale sono comunque concesse le condizioni migliori: 53mila barili al giorno a costo quasi zero). Il Paraguay e la Repubblica Domenica, per esempio, riceveranno rispettivamente 18.600 e 50mila barili al giorno con un pagamento dilazionato in 15 anni ad un tasso annuale del 2 per cento.
Anche con la Colombia, governata dall’ultra destra del presidente Uribe, politicamente agli antipodi di Chavez, il Venezuela ha tessuto una fitta trama di relazioni economiche. I frequenti scambi di accuse tra i due presidenti, e relative drammatizzazioni mediatiche, non hanno impedito l’intesa per la costruzione di un oleodotto di 1300 Km dai confini orientali venezuelani fino alle coste colombiane per facilitare a Caracas l’esportazione di greggio verso l’Asia.
La politica di alleanze continentali, innanzitutto l’appoggio ottenuto dal brasiliano Lula, ha consentito al Venezuela di veder ridotta l’ostilità di Uribe alla creazione di Petroámerica: una sorta di multinazionale statale latinoamericana del petrolio e del gas, immaginata con altri obiettivi dall’allora presidente venezuelano Caldera. Si tratta della costruzione di cartello energetico che gestirebbe l’11,5 per cento delle riserve mondiali di greggio. Un embrione del gigante pubblico del petrolio c’è già: gli accordi di cooperazione tra Pdvsa con Petrobras (l’impresa statale brasiliana) per garantire il rifornimento energetico al nord est del B Brasile. L’alleanza con l’argentina di Kirchner ha permesso intanto la creazione di Petrosur, una compagnia il cui capitale sarà in gran parte fornito dallo Stato venezuelano ma che prevede la partecipazione di settori privati.
Per il debutto europeo della diplomazia del petrolio Chavez ha scelto la Spagna. La Repsol, la multinazionale a capitale spagnolo che gestisce buona parte degli impianti di estrazione di idrocarburi nel delta dell’Orinoco, sarà partner di Pdvsa in una società creata grazie a una norma approvata dal Parlamento venezuelano che consente la fondazione di imprese miste a patto che il 51% del capitale resti in mano dello Stato (lo stesso vincolo che Castro impose agli investitori esteri quando aprì l’economia cubana al dollaro). Un business miliardario che si aggiunge ai centomila barili al giorno che la multinazionale già ricava dai quattro campi petroliferi ottenuti in concessione dal governo. Le previsioni di investimento della Repsol per il 2005 in Venezuela sono di 185 milioni di dollari. L’obiettivo è di arrivare a produrre 2,6 milioni di barili al giorno. Tutti questi affari sono opera del ministro degli Esteri, Alì Rodriguez, il grande vecchio del petrolio venezuelano.
Settant’anni compiuti, colto, severo, è lui la carta giocata da Chavez sul tavolo della diplomazia internazionale mentre i prezzi del greggio impazziscono. E’ l’ex presidente di Pdvsa ed è stato a lungo segretario dell’Opec. Fu lui a consigliare al presidente la diplomazia dell’oro nero, a spedirlo per la prima volta in Libia, poi in Iran e anche nell’Iraq di Saddam a trattare con Tareq Aziz. Fu lui, dopo la serrata di due mesi che nel 2002 mise in ginocchio il Paese, a gestire per conto della presidenza della Repubblica il licenziamento di 18mila dipendenti dell’industria petrolifera, decapitando la dirigenza dell’azienda con l’obiettivo di azzerare ogni opposizione interna. Le fonti ufficiali venezuelane lo negano, ma dopo l’epurazione in Pdvsa (e anche a causa dei sabotaggi subiti) la capacità di produzione venezuelana ha subito un grosso calo e non si è ancora del tutto ripresa. Secondo dati Opec, si è passati dai 3,3 milioni di barili al giorno del 1998 a 2,6 milioni di barili nel 2004. Di questi 1,2 milioni di barili sono prodotti da compagnie straniere mentre Pdvsa da 2,1 milioni di barili è scesa a 1,4. Una politica energetica che ha aumentato le possibilità d’affari di molte compagnie straniere: la Chevron e la Repsol innanzitutto.
Alì Rodriguez è unanimemente considerato l’uomo ombra della politica degli alti pezzi del petrolio. Nega, però, che siano la resistenza di alcuni Paesi produttori a modificare la politica delle quote e l’infinito dopoguerra in Iraq a far schizzare in alto il prezzo del greggio. La sua teoria è che il problema vero sia costituito dal rifornimento di benzina degli Stati Uniti. Lì, sostiene Rodriguez, nasce la questione del prezzo: il decifit Usa di 2,7 barili quotidiani, a sentir lui, provocherebbe un innalzamento nel mercato nordamericano che poi verrebbe inevitabilmente trasferito sul mercato mondiale. Negli Usa, assicura, tutte le raffinerie stanno lavorando dall’inizio della crisi nel Golfo al 97% rispetto ai massimi standard possibili. Qualsiasi problema si presenta in questa fase di super lavoro, è la teoria di Rodriguez, si ripercuote inevitabilmente nella politica dei prezzi.