Giovanni Russo Spena (presidente dei senatori di Rifondazione Comunista): «Dini e le sue mani libere rappresentano il peggio della politica». Lamberto Dini (leader dei Liberaldemocratici): «Il vero peggio della politica è il partito del tassa e spendi. Gli italiani non ne possono più della sinistra massimalista e lo dimostreranno con il voto alle prossime elezioni». Benvenuti all’hotel Palazzo Madama, dove anche gli alleati – o presunti tali – se ne dicono di tutti i colori. A 48 ore dal voto finale sulla legge Finanziaria, il voto dell’ex premier è ancora in forse e la maggioranza è in bilico. Il suo sì, come quello di altri, sarà ancora una volta decisivo per la tenuta in vita del governo Prodi. Ieri a Palazzo Chigi hanno tirato un sospiro di sollievo: il senatore australiano Nino Randazzo ha reso pubblico di aver rifiutato l’offerta di Berlusconi di passare all’opposizione. Ma c’è chi dopo l’outing di Randazzo è ancora più preoccupato, perché ha avuto la conferma di una «campagna acquisti» che potrebbe essere riuscita con altri. E Dini, ovviamente, è in cima alla lista degli indiziati.
In queste ore al gruppo dell’Ulivo si fanno conti febbrili. Disinnescata la mina Fernando Rossi (sarebbe intenzionato a dire sì), resta innescata quella dell’altro dissidente di Rifondazione Franco Turigliatto, ancora indeciso se votare no o uscire dall’aula. Se quest’ultimo dirà no la maggioranza domani potrebbe raggiungere i 160 voti. A meno che nel frattempo non venga a mancare il voto di Dini e dei due senatori a lui vicino, Giuseppe Scalerà e Natale D’Amico. Le ultimissime di Radio Palazzo Madama raccontano però che quest’ultimo sarebbe pronto a votare comunque sì.
Per giorni l’ex funzionario di Bankitalia ha lavorato e ottenuto il sì a due compromessi ai quali teneva: un emendamento che eviterebbe l’infornata» di portaborse fra i precari del pubblico impiego e la modifica della norma che introduce un tetto allo stipendio dei manager pubblici: il limite resta fissato a 274mila euro l’anno, ma il taglio delle indennità verrà introdotto gradualmente nell’arco di quattro anni. Escono dal tetto tutti i vertici delle Autorità (alcuni temevano potesse rientrarci anche il governatore di Bankitalia Mario Draghi) e gli ingaggi degli artisti Rai.
Se nonostante queste concessioni Dini e Scalerà decidessero di votare no, l’Unione passerebbe in minoranza: 159 no e 158 sì. A quel punto il voto decisivo sarebbe quello dei senatori a vita, o meglio quello dei due senatori a vita che (Cossiga a parte) non si presentano regolarmente in aula per sostenere la maggioranza: Giulio Andreotti e Carlo Azeglio Ciampi.
Ieri la maggioranza non ha avuto grandi problemi di tenuta. Qualche brivido per un emendamento della Lega sull’energia nucleare (155 sì, 152 no e 5 astenuti: Follini, Manzione, Zanone, Fisichella e Baccini). Ha rischiato di andare «sotto» al voto sull’articolo 31, e grazie al voto sbagliato della senatrice di Forza Italia Bonfrisco. Il Polo ha scelto invece deliberatamente di salvare la maggioranza nel voto sul rifinanziamento del progetto del supercaccia «Eurofighter», contro il quale hanno votato no alcuni senatori della sinistra.
Gli scricchiolii della maggioranza si avvertono intanto alla Camera dove si vota il decreto di accompagnamento della Finanziaria già varato dal Senato. Verdi e Di Pietro si sono nuovamente scontrati sulla norma di soppressione della «Stretto di Messina spa» mentre l’Udeur ha protestato contro la conferma del no che avrebbe permesso la «regolarizzazione» di 23 dirigenti al ministero della Giustizia.
«Quel che è accaduto è ridicolo», ha protestato il capogruppo di Mastella Mauro Fabris.
«Facciamo prevalere il senso di responsabilità», gli ha risposto il sottosegretario all’Economia Mario Lettieri.