La guerra delle caricature non è più così caricaturale. Anzi, la crisi si espande e si acuisce ora dopo ora. E mette in vista una latitudine islamica finora rimossa. Quella geografica e demografica di un miliardo di umani che professano la fede coranica. Ma, soprattutto, quella politica e sociale.
Bruciano le ambasciate, dall’Indonesia al Libano, da Damasco a Teheran. Bruciano quelle di Danimarca e Norvegia, ma l’autodafé è dell’Europa. Con il precedente della sede a Gaza – di nuovo minacciata ma protetta ieri dalla polizia palestinese, come è stata la vittoriosa Hamas a imporre «proteste calme» – ma anche con gli attacchi alla Francia. E con le molotov di ieri nella capitale iraniana sulla residenza d’Austria, presidente di turno dell’Ue, prima ancora dell’invasione di quella danese.
L’associazione con l’odio per gli Usa di Bush jr e dell’invasione dell’Iraq, rimane un’eco negli spari sull’ambasciata di Giakarta. Esorcizzata dalle condanne ad una voce di Washington e di Londra (l’asse della guerra guerreggiata) nei riguardi delle «offese all’Islam», subito seguite dai moniti sulla «intollerabilità» delle «violenze».
Bruciano le ambasciate: ma ad infiammarsi è l’insieme di umiliazioni, debolezze e rancori che coincide con la dislocazione stessa dell’identità musulmana nell’ordine del mondo.
Brucia infatti Bosaso in Somalia, dove si contano un diciasettenne ucciso e 18 feriti dalla polizia che ha sparato sulla folla: sollevatasi contro gli «oltraggi», ma all’assalto delle agenzie internazionali di “aiuti umanitari” nel paese del più disastroso peace-keeping clintoniano (e italiano).
Brucia il Kashmir indiano, con Srinagar in sciopero e serrata: contro la «blasfemia», dopo i moti nel vicino Pakistan, ma nell’incertezza dell’infinito processo di pace (ed infinita guerra sporca) tra i due grandi fratelli separati e superarmati. E brucia Nuova Dheli, capitale della grande India, dove hanno subito 16 feriti e molti arresti gli studenti islamici scesi in piazza contro il Times of India che ha pubblicato una pagina pubblicitaria con versetti del Corano su una nuda schiena di donna (il direttore si giustifica con l’ignoranza dell’arabo). Così come già sabato scorso aveva cominciato a bruciare l’affamato e devastato Bangladesh.
Brucia di nuovo l’Afghanistan, punto di partenza e d’arrivo del ciclo fallimentare della “guerra al terrorismo”: cinque morti nelle sparatorie della polizia di Karzai (che pure s’era affrettato a condannare gli «affronti al Profeta») contro migliaia tornati nelle strade sotto le bandiere dei taleban. E anche davanti alla mega-base statunitense di Bagram.
Brucia ancora la ferita aperta della democrazia algerina: la capitale ha ritrovato l’ardore fondamentalista proprio dove aveva iniziato a premere sull’Europa, nell’Università.
Brucia la piaga sanguinosa dell’Iraq, senza distinzioni – nonostante la guerra civile che serpeggia sotto il regime di occupazione permanente – tra i sunniti e gli sciiti, nel cui Sud si spara contro i soldati danesi.
Brucia, indubbiamente, la debolezza delle élites politiche del mondo musulmano, specialmente arabo e mediorientale. Si vede in Giordania, dove la “moderata” monarchia ashemita ha arrestato i direttori dei due giornali che avevano scelto la pubblicazione delle caricature. E si vede nel decisivo Egitto del presidente-monarca Mubarak, dove sono i Fratelli Musulmani già affermatisi alle elezioni politiche (entro i limiti della repressione e dei brogli) a dare un limite alla protesta, accanto alle autorità morali sunnite.
Si vede soprattutto in Libano e Siria, palcoscenici degli assalti del week end, fra le trame dell’incerta era del secondo Assad e nell’incandescenza della pressione internazionale: che nel nuovo fronte di “pericoli” e “sanzioni” affianca Damasco a Teheran. Si vede, appunto, anche in Iran: dove la sommossa è dei pasdaran. In giorni di sfida decisiva del “loro” presidente Amadinejad sul programma nucleare, verso gli Usa ma anche verso l’indistinta politica dell’Ue.
Due domande urgono così alla coscienza europea, interpellata nella sua stessa efficacia. Perché? E fino a dove?
Domande difficili, che diventano vane se lo sguardo si ferma sulla scintilla e non indaga ciò che brucia nell’incendio. Si rischia di tradurlo in un rogo delle illusioni sulla capacità di convivenza. Così come, d’altro lato, si rischia un fuoco illusorio.
Già nel 2003 un importante antropologo indiano, Amitav Gosh, paragonava sul New Yorker il contesto dell’11 settembre al Grande Ammutinamento di indù e musulmani che nel 1857 scosse l’Impero britannico.
E’ un parallelo che torna più calzante oggi. Di quella rivolta, infatti, la vulgata coloniale ha tramandato una causa incredibile per l’immaginario occidentale: la distribuzione a reparti di soldati indigeni della Compagnia delle Indie di cartucce al grasso di vacca e di maiale, rispettivamente sacra agli indù e interdetto ai musulmani.
Nella realtà, ovviamente, il Great Mutiny fu e manifestò il portato di ben altro. Pur se finì sconfitto, travolgendo definitivamente le forme politiche della resistenza identitaria indiana. Allora, l’Impero abolì la sua vecchia amministrazione – la Compagnia – e si fece sovranità diretta, dal 1876. Per capitolare settant’anni più tardi al movimento anticoloniale mosso da una nuova coscienza sociale e dal sogno di una nuova identità.