Il dato che maggiormente salta agli occhi leggendo i recenti articoli di Ricci su Repubblica e di Milluzzi su Liberazione riguardo alla diffusione della precarietà nel mondo del lavoro è il dato concernente l’altissima diffusione dei contratti atipici e a tempo determinato nel settore dei servizi rispetto a quelli dell’industria e del commercio. Dalle recenti indagini statistiche dell’Eurispes risulta infatti che, se nel settore dei servizi la metà circa degli occupati non è più a tempo indeterminato, nell’industria questa percentuale scende all’11% mentre nel commercio si assesta ad un 17%. Il che, naturalmente, non esclude minimamente il fatto che gli industriali italiani abbiano enormemente beneficiato della diffusione di questi contratti come mezzo di ricatto e di pressione sulla classe operaia per indebolirne la capacità di resistenza ed imporre, quindi, accordi al ribasso. Ciò è avvenuto, in particolare, per i contratti di formazione, per i giovani neo-assunti, controllati a vista dai padroni, impossibilitati ad esercitare il diritto di sciopero e costretti ad accettare le condizioni più umilianti, pena la non rinnovabilità del contratto.
Tuttavia l’industria, in misura maggiore del commercio, presuppone una certa continuità nel lavoro, un certo grado di specializzazione del lavoratore: ciò impedisce, almeno in parte, una diffusione completa ed un’attuazione integrale delle forme di precarietà. Se lo sfruttamento, in questo caso, passa per esempio attraverso i turni massacranti (vedi Melfi), la mancanza di rinnovo dei contratti, nel settore dei servizi, ed in particolare in quegli enti che offrivano servizi pubblici ora privatizzati (come telefonia, energia, trasporti, istruzione e sanità), la precarietà più brutale nei rapporti di lavoro è stata massicciamente introdotta, sostenuta, sviluppata, di pari passo con la dinamica delle privatizzazioni. Enel, Telecom, Iri, Autostrade e tutti i colossi dell’industria statale hanno assistito ad un massiccio processo di privatizzazione, di penetrazione del capitale privato ed in particolare dei magnati del capitalismo italiano, nella gestione del servizio. Quale migliore occasione di profitto, sostanzialmente a costo zero ed aperta ad un’utenza che coincide con l’intera popolazione, se non quella di beneficiare di servizi (come la telefonia, l’energia, la scuola, ecc.) che riguardano l’intera popolazione, nonché la totalità delle attività produttive?
Ma per estrarre ingenti profitti dalla gestione privata d’un servizio di pubblica utilità – di cui, quindi, è possibile scaricare sullo stato, attraverso il meccanismo della partecipazione o dei sovvenzionamenti pubblici gli investimenti più onerosi – non è sufficiente acquisirne la gestione; bisogna, altresì, segmentare il servizio stesso, subappaltarlo ad imprese che ne garantiscano a loro volta la gestione territoriale e, soprattutto, reperire sul mercato del lavoro il cosiddetto capitale umano, uomini e donne, ragazzi e ragazze in carne ed ossa, disposti, per necessità o per mancanza d’occupazione, ad accettare le condizioni di sfruttamento più aberranti con contratti perennemente precari, a tre, sei mesi. Gli ingenti tagli alla spesa pubblica, la drastica riduzione dei fondi per la scuola, l’università, la ricerca, il blocco delle assunzioni in questi settori, connesso al fatto che una quota crescente di capitali si spostano dalle attività industriali a quelle dei servizi – data la più alta redditività ed il minor rischio – offrono a queste imprese appaltatrici e subappaltatrici di servizi, quell’enorme massa di lavoro umano che le è indispensabile per ottenere ingenti quote di profitto.
Letto in questa chiave, quindi, non appare casuale il dato fornitoci da Ricci nell’articolo di repubblica del 15/06, secondo il quale vi è tutta una serie di facoltà universitarie (come Lettere e le facoltà socio-politiche) che, non contemplando la frequenza obbligatoria ed il numero chiuso e risultando, quindi, facilmente accessibili anche agli studenti lavoratori, preparano direttamente al precariato. Coloro che rimangono esclusi dall’insegnamento e dalla carriera universitaria dove possono trovare occupazione se non nei diversi call-center delle imprese telefoniche o delle imprese fornitrici dei vari servizi che la pericolosa convivenza di pubblico e privato offrono alla cittadinanza? E sufficiente farsi un giro nei call-center della Tim, dell’Alitalia o di altre compagnie pubbliche e private, oppure tra i lavoratori delle cooperative sociali, per rendersi conto sia dell’estrazione sociale sia della formazione culturale delle lavoratrici e dei lavoratori che operano in questi settori. Tra di loro troveremo certamente una percentuale altissima di laureati e di studenti-lavoratori che, impossibilitati ad applicare le loro competenze nel proprio specifico ramo d’attività, hanno inevitabilmente ripiegato su lavori precari, alienanti e notevolmente sottopagati.
Ma il capitale, com’è noto, crea esso stesso il suo becchino che lo porterà alla rovina, ed è compito nostro, dei comunisti, dialogare con questi lavoratori, intercettarne i bisogni fondamentali, sostenerli nelle loro rivendicazioni, nelle vertenze che cominciano ad ingaggiare contro i loro padroni – più o meno visibili – e, soprattutto, dov’è possibile, favorirne la connessione con altre lotte per la difesa del posto di lavoro, per la difesa del salario, e, soprattutto, per contrastare la pericolosissima tendenza del capitalismo italiano allo smantellamento delle fabbriche, allo spostamento degli investimenti dalle attività produttive verso la rendita finanziaria e verso la gestione parassitaria dei servizi. A conferma di questa tendenza, valga su tutti, come dato esemplare, quello della ricchissima Emilia Romagna: “Nel 2004 è calato il numero degli addetti (-24000) e sono aumentati i disoccupati (+11000), ma il dato più preoccupante è che su 1850000 occupati, 400000, il 40% hanno un contratto atipico”.