Dichiarare un Bantustan indipendente

da Al-Shabaka, il network di politica palestinese

Haidar Eid è professore associato di letteratura pstcoloniale e postmoderna all’Università al-Aqsa di Gaza. Molti sono i suoi scritti sul conflitto arabo-israeliano, compresi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle, e Open Democracy. Ha pubblicato lavori su “cultural studies” e di letteratura in riviste come Nebula, Journal of American Studies in Turchia, Cultural Logic, e il Journal of Comparative Literature.

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

L’“euforia indotta” che caratterizza le discussioni all’interno dei mezzi di comunicazione di massa sull’imminente dichiarazione di uno Stato palestinese indipendente a settembre, ignora la cruda realtà sul terreno e gli avvertimenti dei molti commentatori critici.
Raffigurare una tale dichiarazione come un “passo significativo” per l’ormai defunto “processo di pace” e una “sfida” al governo di destra di Israele, serve a oscurare la continua negazione da parte di Israele dei diritti dei Palestinesi, rafforzando nel contempo l’implicita adesione della comunità internazionale ad uno Stato di apartheid in Medio Oriente.
L’iniziativa per il riconoscimento è condotta da Salam Fayyad, nominato Primo ministro dell’Autorità Palestinese (AP), con sede a Ramallah. Essa si basa sulla decisione presa nel corso degli anni ’70 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di adottare il programma più flessibile di una “soluzione a due Stati”.
Questo programma sostiene che la questione palestinese, l’essenza del conflitto arabo-israeliano, può essere risolta con la creazione di uno “Stato indipendente” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come sua capitale.
In questo programma i profughi palestinesi sarebbero ritornati allo Stato di “Palestina”, ma non alle loro case in Israele, che definisce se stesso come “lo Stato degli Ebrei.” Quindi, l’“indipendenza” non si occupa di questo problema, e neppure ascolta gli appelli lanciati da 1,2 milioni di Palestinesi cittadini di Israele di trasformare la lotta in un movimento anti-apartheid, visto che loro, in Israele, sono trattati come cittadini di terza classe.
Questo Stato palestinese dovrebbe avere attuazione dopo il completo e definitivo ritiro delle forze israeliane dalla Cisgiordania e da Gaza. O assisteremo semplicemente ad un ridispiegamento delle forze armate di Israele, come testimoniato durante il periodo di Oslo?
Eppure, i sostenitori di questa strategia affermano che l’indipendenza garantisce che Israele tratterà con i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania come con un unico popolo, e che la questione palestinese può essere risolta in base al diritto internazionale, soddisfacendo così i diritti minimi politici e nazionali del popolo palestinese.
Si dimentica il fatto che Israele ha predisposto sul terreno ben 573 barriere e posti di blocco permanenti attorno alla Cisgiordania occupata, così come ulteriori 69 posti di blocco “volanti”, e si potrebbe forse ignorare l’esistenza di colonie per “soli Ebrei”, che controllano oltre il 54 per cento della Cisgiordania?
Alla Conferenza di Madrid del 1991, l’allora governo “falco” del Primo ministro israeliano Yitzhak Shamir non accettava nemmeno il “diritto” dei Palestinesi per un’autonomia amministrativa. Tuttavia, con l’avvento del governo “colomba” Meretz / laburista, guidato da Yitzhak Rabin e Shimon Peres, la leadership dell’OLP ha condotto, dietro le quinte, negoziati in Norvegia. [N.d.tr.: Il Meretz-Yachad è un partito politico israeliano di sinistra, d’ispirazione laica, sionista e socialdemocratica.] Con la firma degli Accordi di Oslo, Israele si liberava del gravoso onere di amministrare Gaza e le sette città popolose della Cisgiordania.
La prima Intifada era finita attraverso una decisione ufficiale – e segreta – dell’OLP senza raggiungere almeno provvisoriamente i suoi obiettivi nazionali , vale a dire “libertà e indipendenza”, e senza il consenso del popolo, che l’Organizzazione pretendeva di rappresentare.
Questa stessa idea di “indipendenza” veniva quindi respinta dall’OLP, perché l’Organizzazione non si impegnava per i “diritti minimi di legittimazione” dei Palestinesi, e perché era l’antitesi della lotta di liberazione della Palestina.
Quello che si proponeva al posto di questi diritti era uno Stato solo di nome. In altre parole, i Palestinesi dovevano accettare la piena autonomia su una frazione della loro terra, e nemmeno pensare alla sovranità o al controllo di frontiere, delle riserve d’acqua e, soprattutto, al ritorno dei rifugiati. Questo era l’accordo di Oslo e questa la deliberata “Dichiarazione di Indipendenza.” Nessuna meraviglia, quindi, che il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu chiarisca che egli potrebbe accettare uno Stato palestinese mediante negoziati.
Nemmeno questa dichiarazione assicurava di essere conforme con il piano di spartizione del 1947 delle Nazioni Unite, che garantiva ai Palestinesi solo il 47 per cento della Palestina storica, anche se comprendeva più di due terzi della popolazione. Una volta dichiarato, il futuro Stato “indipendente” palestinese occuperà meno del 20 per cento della Palestina storica.
Con la creazione di un Bantustan, e definendolo uno “Stato in grado di vivere”, Israele si sbarazzerà del peso di 3,5 milioni di Palestinesi. L’Autorità Palestinese governerà sul numero massimo di Palestinesi viventi all’interno del minimo numero di frammenti di territorio – frammenti che possiamo definire lo “Stato di Palestina”. Questo “Stato” sarà riconosciuto da decine di paesi – i capi dell’infame bantustan tribale del Sud Africa possono essere molto invidiosi!
Si può solo supporre che la tanto decantata e celebrata “indipendenza” semplicemente rafforzerà lo stesso ruolo che l’Autorità ha giocato sotto Oslo. Vale a dire, fornendo misure di polizia e di sicurezza progettate per disarmare i gruppi della resistenza palestinese. Queste sono state le prime richieste fatte ai Palestinesi ad Oslo nel 1993, a Camp David nel 2000, ad Annapolis nel 2007 e a Washington lo scorso anno.
Nel frattempo, all’interno di questa cornice di trattative e richieste, non vengono imposti impegni od obblighi ad Israele.
Proprio come gli Accordi di Oslo hanno segnato la fine della resistenza popolare, non-violenta, della prima Intifada, questa dichiarazione di indipendenza ha un obiettivo consimile, vale a dire porre fine al crescente sostegno internazionale alla causa palestinese, a partire dall’aggressione israeliana contro Gaza durante l’inverno 2008-2009 e dall’attacco alla Flottiglia della Libertà lo scorso maggio. Pertanto, questa “indipendenza”non è sufficiente a fornire ai Palestinesi un minimo di tutela e di sicurezza da eventuali attacchi futuri e atrocità da parte di Israele.
L’invasione e l’assedio di Gaza sono stati un prodotto di Oslo. Prima che gli Accordi di Oslo venissero sottoscritti, mai Israele aveva usato il suo arsenale completo di F-16, bombe al fosforo e armi DIME per attaccare i campi profughi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. [N.d.tr.: L’arma DIME, “Dense Inert Metal Esplosive”, è costituita da un involucro di carbonio che al momento dell’esplosione si frantuma in piccole schegge e nello stesso momento fa esplodere una carica che spara una lama di polvere di tungsteno caricata di energia, che brucia e distrugge con un’angolatura molto precisa quello che incontra nell’arco di quattro metri. Questa tecnologia si inserisce nella nuova classe di armi “a bassa letalità”, che minimizzano i danni collaterali e circoscrivono in uno spazio ristretto gli effetti letali.]
Oltre 1.200 Palestinesi sono stati assassinati nel periodo 1987-1993 durante la prima Intifada. Israele ha eclissato questo numero durante le sue tre settimane di invasione nel 2009; è riuscito ad ucciderne brutalmente più di 1.400 nella sola Gaza. Questo numero non include le vittime dell’ assedio imposto da Israele a partire dal 2006, che è stato contrassegnato da chiusure e ripetute aggressioni israeliane prima dell’invasione di Gaza, e nei periodi successivi.
In definitiva, quello che la cosiddetta “dichiarazione di indipendenza” offre al popolo palestinese è un miraggio, una “Patria indipendente”, niente altro che un bantustan-in-maschera. Anche se questo “Stato” verrà riconosciuto da tanti Paesi amici, è ben lungi da fornire ai Palestinesi libertà e liberazione.
Un dibattito critico – tutto diverso da uno non obiettivo, demagogico – richiede un esame minuzioso delle distorsioni della storia prodotte da false rappresentazioni ideologiche.
Ciò che deve essere affrontata è una visione storica umana delle questioni palestinese ed ebraica, una visione che non deve negare mai i diritti di un popolo, che garantisce una totale uguaglianza, e abolisce le discriminazioni – invece del riconoscimento di un nuovo Bantustan, 17 anni dopo la caduta dell’apartheid in Sud Africa.