Dialettica del terrorismo

Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconcepibile nemico,
il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici
piuttosto che in base ai suoi risultati…
Naturalmente le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto del terrorismo,
ma possono sempre saperne abbastanza da essere convinte che,
rispetto al terrorismo, tutto il resto dovrà sembrar loro abbastanza accettabile,
e comunque più razionale e democratico.
[G. Debord, Commentarii alla società dello spettacolo, 1988, § IX]

Il nazismo e lo stalinismo ieri come il nuovo terrorismo oggi
sono due facce della stessa medaglia: la medaglia dell’inferno in terra.
[P. Casini a Birkenau, 10 settembre 2004]

Combattevamo il terrorismo
ma solo dopo molti anni scoprii che eravamo noi i terroristi.
[parole di un torturatore argentino, Corriere della sera, 27.4.1985]

1.Il Terrorismo come Nemico

Tra gli “effetti collaterali” del collasso dell’Unione sovietica, uno si è rivela-to piuttosto fastidioso per gli Stati uniti: la scomparsa del Nemico, o – come lo chiamava Reagan – dell’“Impero del Male” ha lasciato un vuoto difficile a col-marsi. Questo vuoto nel corso di tutti gli anni novanta ha posto gli Usa nella ne-cessità di scovare periodicamente in giro per il mondo un “novello Hitler”, così da giustificare il mantenimento di spese militari assolutamente abnormi e l’effettuazione delle relative guerre. Una cosa va riconosciuta: la “fabbrica degli Adolfi” nel corso degli anni novanta ha lavorato molto e bene. Saddam, Norie-ga, Aidid, Milosevic stanno a dimostrarlo. Alcuni Adolfi si sono rivelati così coriacei che si è potuto utilizzarli più di una volta (è il caso di Saddam e Milo-sevic). Né si può dire che il vivaio degli Adolfi non continui a dare i suoi frutti: basti pensare all’attuale presidente iraniano Ahmadinejad.
Ma c’è un però. Prese per sé, tutte queste figure avevano un difetto non da poco: era implausibile, se non ridicolo, che esse potessero rappresentare un Nemico all’altezza di quello contro cui era stata combattuta, e infine vinta, una guerra (fredda, tiepida o calda a seconda dei casi) durata decenni. Mancava, in altri termini, una Minaccia Globale. Poi è venuto l’11 settembre, e il nuovo Nemico si è finalmente materializzato nel Terrorismo.
Il Terrorismo, a beneficio dell’immaginario della “società dello spettacolo”, ha fatto il suo ingresso in scena con un attentato apocalittico, e si è inoltre in-carnato in una persona fisica: bin Laden. Quest’ultimo aspetto giova senz’altro a polarizzare l’immaginazione, offrendo alle folle “occidentali” il classico Cat-tivo dei film. Ma non è questa incarnazione l’aspetto essenziale del Terrorismo. Al contrario: il punto di forza del Terrorismo – in questo simile al buon Dio – consiste nel suo essere Altro rispetto ad ogni sua manifestazione. Cioè nel suo essere – in questo più simile al capitale – transnazionale, reticolare, e soprattutto elusivo e sfuggente. È precisamente questa caratteristica a consentirgli incarna-zioni multiple, nel tempo e nello spazio. L’importante è che ognuna di esse as-sume ora caratteristiche di estrema pericolosità per il fatto stesso di essere una manifestazione della Nuova Minaccia Globale.
Le metafore adoperate per definire il Terrorismo sono numerose. Sono di ca-rattere medico: “è un cancro che si sta diffondendo” [Amato, Intervista a la Re-pubblica, 7.9.2004]. Oppure di contenuto storico: è “il nuovo nazismo” (o, se-condo i gusti, “il nuovo comunismo”). Ma sono soprattutto di carattere religio-so: il Terrorismo è “il Male assoluto”, “il Demonio”. Per Shimon Peres, ad e-sempio, il terrorismo “è il vero Satana del nostro tempo”, è “inumano, diaboli-co”. Ma se le cose stanno così, le conseguenze non sono da poco. Primo, lotta senza quartiere: “non si possono fare patti col diavolo. Non si scende a com-promessi col demonio”. Secondo, lotta sino alla distruzione completa dell’av¬versario: la minaccia terroristica “non scomparirà fino a quando non avremo e-stirpato l’ultimo terrorista e le forze che appoggiano e alimentano il terrore”. Terzo, chi non è con noi e contro di noi: “d’ora in poi ciascuno deve scegliere se stare con chi combatte il terrorismo o con chi lo appoggia”. Quarto, dovremo sacrificare qualcosa: “sarà una battaglia in cui talvolta dovremo porre restrizioni alle nostre libertà” [S. Peres, Strategia globale contro i terroristi, in la Repub-blica, 27.9.2001].
La concezione neomanichea del Terrorismo come Male assoluto consente di eliminare ogni mediazione e di polarizzare il confronto tra Amico e Nemico come entità reciprocamente irriducibili, identificando se stessi con il Bene e il Terrorismo, appunto, con il Male [cfr. R.F. Worth, A Nation defined by its enemies, in New York Times, 24.2.2002]. Essa ammette infinite variazioni sul tema: il Terrorismo può infatti essere contrapposto, a seconda dei casi, alla Civiltà, alla Democrazia, all’Occidente, alla Modernità. In un recente discorso di Tony Blair troviamo tutti questi temi. Troviamo l’affermazione (razzista e neocoloniale) secondo cui quello in corso “non è uno scontro tra civiltà”, bensì “uno scontro per la civiltà”. Troviamo l’epica lotta tra le “forze della democrazia” e le “forze della tirannia” (e “tra democrazia e violenza”). Troviamo l’afferma¬zione per cui gli “estremisti” si opporrebbero all’“Occidente” in quanto tale e alla sua “battaglia per la modernità” [cfr. T. Blair, Clash about civilisations, 21.3.2006, in www. direct.gov.uk]. Più rozza, ma non meno efficace, la sintesi offerta dall’ex ministro della difesa Martino: “ciò che accade è lo scontro tra terrorismo e civiltà senza aggettivi” [a Porta a porta, 15.12.2003].
“Male assoluto” significa “imparagonabile”. Si tratta di un cliché assai con-fortante, che adempie all’importante funzione ideologica di restituire l’innocen¬za al mondo occidentale. Esso, come è stato notato, risponde infatti “alla con-vinzione (e al calcolo) che, stabilendo un confronto con i misfatti di un “male assoluto”, quale sarebbe l’attuale terrorismo (islamico), le nostre eventuali colpe – di ieri e di oggi – debbano di necessità finire con l’essere giudicate solo come veniali, e di conseguenza irrilevanti. Insomma che, in quanto vittime designate di un “male assoluto”, noi tutti abbiamo il diritto di considerarci, sempre, più o meno innocenti” [A. Gambino, Esiste davvero il terrorismo?, Fazi, Roma 2005, p. 24].
“Male assoluto” significa anche “decontestualizzato”: senza radici, senza precedenti, senza motivazioni razionali, inspiegabile (l’orrore non si spiega). Da questo punto di vista, l’11.9 è un “salto”, un “nuovo inizio” in senso strettamen-te metafisico. Questa metafisica dell’“Inizio assoluto” è ben espressa nel cliché corrente, secondo cui “con l’11 settembre tutto è cambiato”. Questo cliché ha il difetto di non essere granché condiviso in giro per il mondo. In effetti, sostenere che sia “senza precedenti” l’uccisione di circa 3.000 persone è semplicemente ridicolo se si pensa non soltanto all’orrenda carneficina di civili avvenuta duran-te la seconda guerra mondiale, ma anche a quanto è successo negli ultimi de-cenni in Asia (guerra di Corea e in Vietnam), nei Paesi arabi e in in America Latina (si stima che le sole conseguenze dell’embargo all’Irak abbiano causato più di 500 mila morti civili; altrettante sono state le vittime della guerra civile in Guatemala). La considerazione dell’11 settembre come “inizio” è rifiutata in particolare da gran parte dell’opinione pubblica araba, che vede in esso non un cominciamento, ma una risposta difensiva. Una risposta all’appoggio incondi-zionato degli Usa a Israele, alla prima guerra irachena, e in generale alle inge-renze e alla presenza militare Usa nell’area mediorientale. Va aggiunto che que-sta lettura è stata enormemente rafforzata dalle guerre di aggressione contro l’Afghanistan e contro l’Irak.

Il nemico è un terrorista

Negli ultimi anni sono stati rubricati sotto la categoria del “Terrorismo” i fenomeni più disparati: l’attentato alle Twin Towers come l’incendio di 3 Suv in un autosalone da parte di un attivista verde statunitense (che si è beccato per questo 22 anni di galera), il massacro di Beslan come la resistenza curda in Turchia, i massacri dei separatisti Tamil nello Sry Lanka come il sabotaggio di sistemi elettronici. Si è arrivati al punto che perfino un quotidiano iper-moderato quale la Frankfurter Allgemeine Zeitung si è visto costretto a mettere in guardia contro l’uso della “guerra al terrore” quale strumento per affibbiare ad ogni movimento di opposizione e ad ogni posizione politica sgradita la qualifica di “terrorista”, rivendicando invece la necessità di dare “risposte differenziate a problemi politici, etnici e culturali complessi” [W.G. Lerch, Terrorismus, Widerstand und Politik, in Faz, 23.10.2003].
In questo modo non soltanto il Terrorismo è il Nemico, ma ogni nemico è un terrorista. Niente di nuovo sotto il sole, in fin dei conti. Per il generale golpista argentino Videla erano terroristi “tutti coloro che diffondono idee contrarie alla civiltà occidentale e cristiana” [cit. in M. Fossati (a cura di), Terrorismo e terro-risti, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 36]. Per il golpista cileno Pinochet era terrorista chiunque difendesse il regime democratico di Allende. Secondo il go-verno degli Stati Uniti l’African national congress di Nelson Mandela era “uno dei più noti gruppi terroristi del mondo”. E nel 1981 Ronald Reagan definì co-me una lotta contro “il perverso flagello del terrorismo” il sistematico intervento Usa in America Latina, a sostegno di dittature sanguinarie e in combutta con gruppi terroristici e paramilitari capaci di ogni atrocità.
La novità semmai consiste nel fatto che questa accusa è resa oggi pericolosa anche a casa nostra, in quanto la legislazione nei confronti dei reati di terrori-smo, terrorismo internazionale, e relativo “fiancheggiamento” è stata notevol-mente inasprita. E questo – curiosamente – pur in assenza di una univoca defi-nizione di “terrorismo”.

La definizione che non c’è

Pensandoci bene, la cosa è un po’ buffa. Da un lato ci dicono che a causa del Terrorismo “il mondo è in pericolo” [Fassino, Intervista a la Repubblica, 11.9.2004] che la “Guerra al Terrorismo” è la priorità politica dei prossimi anni (anzi: “dei prossimi vent’anni”, secondo i calcoli del governo degli Stati Uniti). Dall’altro, di questo nemico non esiste una sola definizione universalmente accettata a livello internazionale. Tutto il mondo è in guerra contro il Terrore, ma, ogni volta che si chiede di definire che cosa sia, gli Stati litigano e non riescono a mettersi d’accordo. Nel migliore dei casi, vengono fuori “descrizioni” come questa: “ogni atto destinato a causare la morte, o a infliggere lesioni gravi, a qualsiasi civile, a ad altra persona che non partecipi direttamente alle ostilità, in una situazione di conflitto armato, quando, per la sua natura e il contesto in cui ha luogo, il suddetto atto sia volto a intimidire una popolazione, ovvero a costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere, o astenersi dal compiere, un atto qualsiasi” [Convenzione Onu sulla repressione del finanziamento del terrorismo, 1999, art. 2, 1b].
L’aspetto più convincente di questa descrizione (che però non ha il valore di una definizione vincolante per il diritto internazionale) consiste nel dire che il terrorismo è rivolto contro la popolazione civile. Quello più dubbio riguarda l’importanza assegnata alla finalità (politica) quale elemento caratterizzante del reato. In verità, un’azione dovrebbe essere punita in quanto tale, e non in base alle finalità di chi la pone in essere. Se accade il contrario si entra in un campo molto pericoloso: quello della valutazione delle intenzioni, vere o presunte. E proprio non si vede perché il “processo alle intenzioni”, metodo che già il lin-guaggio comune rifiuta, dovrebbe invece essere un momento fondante del giu-dizio nel caso del terrorismo.
La pericolosità di questa impostazione emerge con chiarezza dalla normativa europea in materia, che si riferisce alla descrizione contenuta nella Convenzione Onu. Nella Decisione quadro assunta dal Consiglio dell’Unione europea il 13 giugno 2002, infatti, non solo vengono inclusi tra i “reati terroristici” anche i comportamenti che “minaccino” di “destabilizzare gravemente e distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un paese o un’organizzazione internazionale” . Ma tra le azioni terroristiche sono citate l’occupazione di infrastrutture o di luoghi pubblici, alcune forme di danneggiamento a proprietà dotate di valore simbolico, azioni di attacco informatico. È evidente che, a partire da queste premesse, un futuro utilizzo dei reati di terrorismo per colpire le proteste sociali è ipotesi tutt’altro che remota.

Il terrorismo: una tattica e non un nemico

Con tutti i suoi limiti, la Convenzione Onu del 1999 alcune cose importanti ce le dice: in primo luogo, anche se un po’ debolmente, ci dice che il terrorismo ha l’obiettivo di seminare il terrore (“intimidire una popolazione”); in secondo luogo, afferma che gli atti terroristici sono atti di violenza rivolti contro i civili (“ogni atto destinato a causare la morte, o a infliggere lesioni gravi, a qualsiasi civile, a ad altra persona che non partecipi direttamente alle ostilità”).
Possono sembrare banalità, ma ormai anche la tautologia è rivoluzionaria. E infatti la descrizione di cui sopra ci conduce a una conclusione sorprendente: il terrorismo non è un Nemico, ma una tattica. Negli ultimi anni qualche voce si è levata per riaffermare questo semplice concetto: così ha fatto, tra gli altri, il principe Hassan di Giordania, dicendo che “il terrorismo è una tattica, non un nemico definibile”. Ancora più esplicito Antonio Gambino: “il terrorismo è un mezzo (di lotta) e non un fine: non diversamente da come lo sono, per fare un esempio, la lotta sottomarina o i bombardamenti aerei nel corso di una guerra”. Questo punto è molto importante: se il terrorismo è una tattica, il concetto stesso di “guerra al terrorismo” è assurdo. Assurdo come sarebbe il parlare di “guerra all’artiglieria”, o di “guerra alla guerra di trincea”.
La migliore riprova del fatto che il terrorismo è una tattica, e non un nemico individuabile, è rappresentata dalla circostanza che, in molti conflitti armati, en-trambe le parti in causa ne hanno fatto uso. Così, in Palestina, a partire dagli anni Trenta, operarono gruppi sionisti radicali quali l’Irgun Zvai Leumi (Orga-nizzazione militare nazionale) e il Lehi (Combattenti per la pace di Israele), che effettuarono numerosi attentati dinamitardi con l’obiettivo di terrorizzare inglesi e arabi e spingerli ad abbandonare il paese. Ecco come Benny Morris ha descrit-to la situazione: “potenti ordigni furono collocati in zone affollate, causando la morte o la mutilazione di dozzine di persone… Il “salto di qualità” dell’Irgun trovò subito imitatori nel campo avverso, originando una sorta di sinistra “tradi-zione” mediorientale” [B. Morris, Vittime, Rizzoli, Milano 2001, p. 190 ss]. Può essere interessante citare qualche dato. Il primo attentato dell’Irgun ebbe luogo a Gerusalemme l’11 novembre 1937, e causò la morte di 2 arabi. Il 6 luglio 1938 un militante dell’Irgun travestito da arabo collocò due grossi contenitori per il latte pieni di tritolo e shrapnel nel mercato arabo, al centro di Haifa. Le esplosioni fecero 21 morti e 52 feriti. Un’altra bomba fu collocata il 25 luglio: 39 arabi morti e 70 feriti. Il 26 agosto una bomba al mercato ortofrutticolo di Giaffa uccise 24 arabi e ne ferì 39. Nel luglio 1946 una bomba al King David Hotel di Gerusalemme causò la morte di 91 persone tra soldati britannici e civi-li. Attacchi terroristici furono organizzati anche all’estero: il 31 ottobre 1946 saltò in aria l’ambasciata inglese a Roma; nel marzo 1952, infine, vi fu il tentato omicidio del cancelliere tedesco Adenauer.
Tra gli organizzatori dell’attentato al King Hotel David vi era il futuro primo ministro israeliano (e Nobel per la pace) Begin. Un ruolo di rilievo in un’altra organizzazione terroristica, la brigata Stern, lo ebbe anche il futuro premier Shamir, che nel 1991 argomentò così alla radio israeliana il motivo per cui non si doveva condannare la sua organizzazione per i numerosi omicidi organizzati tra il 1940 e il 1948: “il terrorismo è un metodo di lotta accettabile a certe con-dizioni e da parte di certi movimenti”; l’organizzazione Stern “combatteva per la terra del popolo di Sion”, al contrario dei terroristi arabi, che combattevano “per una terra che non era la loro”.
Ovviamente i Palestinesi non erano e non sono dello stesso avviso. Il loro punto di vista fu espresso da Arafat nel suo famoso discorso del 13 novembre 1974 davanti all’assemblea Onu: “La differenza tra il rivoluzionario e il terrorista risiede nella ragione della lotta. Colui che lotta per una causa giusta, colui che lotta per ottenere la liberazione del suo Paese, colui che lotta contro l’invasione e contro lo sfruttamento, come contro la colonizzazione, non può mai essere definito un terrorista” [citato in M. Fossati, cit., p. 56]. È facile vedere che cosa i discorsi di Shamir e di Arafat – in apparenza diametralmente opposti – abbiano in comune: entrambi giustificano l’adozione di tattiche e metodi terroristici in base ai fini per cui sono adoperati. E questi fini – è bene ripeterlo – non sono mai il terrore in se stesso, ma gli obiettivi, in genere politici, che attraverso di esso si pensa che possano essere conseguiti.

Guerriglieri o terroristi?

Se il terrorismo è violenza rivolta contro la popolazione civile per terroriz-zarla e orientarne il comportamento, è chiaro che la guerriglia che rivolge i pro-pri attacchi contro soldati non è terrorismo. Ovviamente, una parte consistente degli sforzi dell’apparato di propaganda mobilitato per sostenere le guerre di Bush mira invece a far rientrare ogni atto di guerriglia e di resistenza armata a-gli occupanti nel concetto di “terrorismo”. Per fortuna, ogni tanto qualcuno rammenta la verità dei vocabolari. Così ha fatto il Jerusalem Post, commentan-do uno dei primi attentati suicidi contro militari statunitensi in Irak: “Sembra terrorismo ma non lo è. La parola terrorismo va riservata ad attentati che colpi-scono deliberatamente i civili” [One enemy, one war, in The Jerusalem Post, 31.3.2003]. Più di recente, il ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, ha fat-to scandalo per aver ribadito lo stesso concetto: “chiunque si batte contro i no-stri militari deve essere combattuto, ma non rientra nella definizione di terrori-sta” [A. Mattone, “Colpire soldati non è terrorismo”. Parla la Livni, è scontro in Israele, in la Repubblica, 12.4.2006].
Ci sono molti modi per assimilare la resistenza e la guerriglia al terrorismo: nel caso iracheno uno dei metodi più praticati consiste nel nascondere gli attacchi della guerriglia contro obiettivi militari ed enfatizzare gli attentati terroristici. Questa raffigurazione del conflitto – facilitata dal fatto che praticamente non vi sono più sul campo giornalisti che non siano “embedded”, ossia al seguito delle truppe di occupazione – è ovviamente rifiutata dagli esponenti della resistenza irachena. Mùsà al Husayivì, direttore di un giornale della resistenza, la rigetta con queste parole: “la resistenza non ha nulla a che fare con le operazioni militari che mirano ai civili, come gli attentati criminali a Karbalà, Najaf, Kàzimiyya, Hilla e Balad”; tanto la caratterizzazione “etnica” delle azioni della guerriglia, quanto quella “religiosa”, servono a distorcere l’immagine della resistenza: gli “islamisti” non hanno affatto un peso preponderante nella resistenza, la cui ideologia semmai è guidata da una “filosofia panaraba”; e non a caso i “membri di al Qaida” (i famosi “luogotenenti di al Zarqawi”) di cui spesso si fa¬voleggia l’arresto in Irak non sono mai stati indicati per nome né mostrati in televisione; lo stesso al Zarqawi, infine, non è noto al popolo iracheno “se non attraverso la propaganda statunitense”: di fatto, questo personaggio (la cui presunta presenza a Fallujah diede il pretesto per la distruzione della città) “rappresenta soltanto una sigla attraverso cui vengono realizzati gli attentati che facilitano il prosieguo dell’occupazione” [intervista raccolta in Limes, n. 6/2005]. A questo riguardo va detto che la stessa stampa statunitense è giunta alla conclusione che il ruolo di al Zarqawi è stato grandemente esagerato dalle truppe occupanti e dai media al seguito [T.E. Ricks, Military plays up role of Zarqawi, in Washington Post, 10.4.2006].
Più in generale, è facile rilevare che nel caso iracheno l’appellativo di “terro-rista” è stato usato piuttosto disinvoltamente. Lo dimostrano le affermazioni con¬tenute in un’intervista rilasciata a la Stampa da un dirigente del ministero degli interni iracheno sotto il governo Allawi: “il nostro Presidente ha appena ripetuto che le elezioni previste a gennaio si faranno, e poco male se due o trecentomila [sic!] terroristi non vi parteciperanno” [G. Zaccaria, intervista al maggiore Ad-nan Nassar al Amri, la Stampa, 15.9.2004]. E siccome il termine “terrorista” viene usato con tanta maggiore facilità quanto più l’avversario a cui lo si affib-bia è ritenuto debole e perdente, si può considerare rivelatore il fatto che nella stessa stampa statunitense e britannica il termine di “terroristi” sia sempre più spesso sostituito da quello di “oppositori armati” o “insorti” (“insurgents”) che conducono una “resistenza urbana” (“urban resistance”) [P. Spiegel, Urban resistance poses questions over tactics, in Financial Times, 10.11.2004].
Con riferimento alla distinzione tra “guerriglia” e “terrorismo”, una delle più importanti rivincite del vocabolario sulla propaganda di guerra è rappresentata da una vicenda giudiziaria che ha suscitato molto scalpore in Italia: quella di alcuni immigrati accusati di “terrorismo internazionale” per il fatto di aver predisposto documenti falsi per l’espatrio di “terroristi” diretti in Irak. Il giudice per le indagini preliminari di Milano, Clementina Forleo, nel gennaio 2005 ha rigettato tale accusa con un’ordinanza in cui si sostiene tra l’altro che “le attività violente o di guerriglia poste in essere nell’ambito di contesti bellici, anche se poste in essere da forze armate diverse da quelle istituzionali, non possono essere perseguite neppure sul piano del diritto internazionale a meno che non venga violato il diritto internazionale umanitario”; infatti “attività di tipo terroristico rilevanti e dunque perseguibili sul piano del diritto internazionale sono quelle dirette a seminare terrore indiscriminato nella popolazione civile nel nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l’umani¬tà”: pertanto, se si considerassero gli “atti di guerriglia, per quanto violenti”, sempre e comunque “attentati terroristici … a prescindere dall’obiettivo preso di mira”, si opererebbe “un’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltro notorio che nel conflitto bellico in questione, come in tutti i conflitti dell’età contemporanea, strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze in campo” [V. Burani, Caccia aperta. Cronaca di un processo e di una sentenza esemplari, in Eretica, n. 1/2005, supplemento, p. 87].
Piuttosto improvvidamente, il procuratore Spataro ha pensato di ricorrere in appello contro questa ordinanza. La sentenza di appello, firmata dal giudice Ro-sario Caiazzo, ha però confermato l’impostazione della Forleo: “il concetto di terrorismo non può essere assunto in termini generici o meramente letterali, comprendendo in esso ogni impiego di violenza da parte di singoli o gruppi i-spirati da motivazioni ideologiche”; pertanto “l’instradamento di volontari verso l’Iraq per combattere contro i soldati americani non può essere considerato sotto alcun aspetto un’attività terroristica” [cfr. P. Biondani, Kamikaze contro i mari-nes, non è terrorismo, in Corriere della Sera, 16.2.2006; Daki, sentenza choc, in il manifesto, 17.2/.006].

Metamorfosi del terrorista

Del tutto speculare alla strategia di denigrazione del nemico come terrorista è quella, complementare, di negare che i terroristi amici siano terroristi. Que-sto uso del “doppio standard” può dar luogo a situazioni decisamente imbaraz-zanti. Così, quando bin Laden combatteva i sovietici in Afghanistan abbattendo aerei di linea pieni di civili era un “combattente per la libertà dell’Afghanistan”; se però alcuni suoi seguaci dirottano e scagliano aerei di linea pieni di civili contro le Torri Gemelle di New York, diventa automaticamente un terrorista – anzi: il terrorista più feroce ed esecrabile di tutti i tempi.
Quello di bin Laden è un caso certamente emblematico di metamorfosi del terrorista. Ma non è il solo. Basti pensare ai quattro palestinesi della cittadina araba israeliana di Shefa Amer, uccisi il 4 agosto 2005 da Eden Natan Zada, un terrorista ebreo travestitosi da soldato. Pur essendo a tutti gli effetti cittadini i-sraeliani, non sono stati riconosciuti come “vittime del terrorismo” (e quindi i loro familiari non hanno potuto beneficiare dei sussidi previsti in questi casi). Il motivo è molto semplice: la legge israeliana riconosce come “vittime del terro-rismo” soltanto coloro che sono stati uccisi da “forze nemiche” (ossia dai pale-stinesi). Purtroppo l’assassino era un ebreo, quindi non può essere considerato un nemico, quindi niente da fare [M. Giorgio, Israele, quando il terrorismo è solo arabo, in il manifesto, 31.8.2005]. Come il bacio della principessa delle fa-vole trasformava il ranocchio in principe, allo stesso modo il passaporto israe-liano ha il magico potere di trasformare il terrorista che lo ha in tasca in non-terrorista.
Nel caso degli Stati Uniti può bastare molto meno: può essere sufficiente il certificato di frequenza di una scuola americana. Soprattutto se si tratta della Scuola delle Americhe. Questa scuola ha addestrato, a partire dal 1946, oltre 60.000 poliziotti e soldati dell’America latina . E questi soldati per decenni hanno combattuto contro “il perverso flagello del terrorismo” in America Latina (ossia contro movimenti di opposizione e sindacati). Purtroppo lo hanno fatto con metodi schiettamente terroristici. Il che ci pone dinanzi a un serio problema definitorio: siamo di fronte a “terroristi-non terroristi” o ad “anti-terroristi terroristi”?
Una cosa è certa: la Scuola delle Americhe ha formato l’élite dell’intero subcontinente. Il Guatemala è rappresentato dal colonnello Byron Lima Estra-da, condannato per l’assassinio nel 1998 del vescovo Juan Girardi. Il Salvador da Roberto D’Aubuisson, il capo degli squadroni della morte che hanno as¬sassinato l’arcivescovo Oscar Romero, e da 19 dei 26 soldati che nel 1989 hanno massacrato un gruppo di gesuiti. Il Cile da diversi collaboratori di Pino-chet, tra cui uno degli assassini di Orlando Letelier a Washington nel 1976. L’Argentina dai dittatori Roberto Viola e Leopoldo Galtieri, Panama dai ditta-tori Manuel Noriega e Omar Torrijos, il Perù da Juan Velasco Alvarado e dal capo dello squadrone della morte “Grupo Colina”, l’Ecuador da Guillermo Rodriguez. Non manca l’Honduras, rappresentato da 4 dei 5 ufficiali che co-mandavano il famigerato Battaglione 3-16, ossia il principale squadrone della morte di questo paese; non manca il Messico (attraverso il responsabile del massacro di Ocosigo nel 1994), e neppure la Colombia (nelle persone, tra gli altri, dei due assassini del commissario di pace Alex Lopera, e di altri 7 ufficiali che dirigono gruppi paramilitari) [G. Monbiot, Il terrorismo nel loro cortile, in il manifesto 7.11.2001].
In questo quadro, un’eccezione è rappresentata da Luis Posada Carriles: que-sto agente della Cia cubano-venezuelano, che nel 1976 ha fatto saltare un aereo di linea cubano con 73 persone a bordo (tra cui l’intera nazionale di scherma cubana), negli anni Ottanta ha addestrato i contras in Nicaragua e i parà in Sal-vador, nel 1997 ha fatto scoppiare in un albergo dell’Avana la bomba che ha ucciso il turista italiano Fabio Di Celmo, non ha studiato alla Scuola delle Ame-riche: ha infatti frequentato l’Accademia militare di Fort Benning in Georgia [O. Ciai, Il fantasma dei Caraibi che voleva uccidere Castro, in la Repubblica, 10.5.2005]. In questo caso, però, la metamorfosi è ancora più rimarchevole: da terrorista si è trasformato in “perseguitato” e ha chiesto asilo politico negli Stati Uniti; non sarà estradato.
Può sembrare un atteggiamento schizofrenico da parte degli Stati Uniti, soprattutto se si considera che il presidente Bush ha dichiarato che “gli Usa non fanno nessuna distinzione fra quelli che commettono atti di terrorismo e quelli che li sostengono, perché sono egualmente colpevoli di omicidio”. Ma che dire allora del fatto che a capo dell’antiterrorismo Usa sia stato nominato John Negroponte, che come ambasciatore in Honduras aveva diretto negli anni ottanta tutte le iniziative terroristiche nell’area? Noam Chomsky ha giudicato molto severamente questa “nomina del principale terrorista internazionale alla più alta carica antiterroristica del mondo” [La guerra al terrorismo, in Conferenza Annuale di Amnesty international, 13.2.2006]. Forse si sbaglia. Forse gli Usa hanno semplicemente scoperto i pregi della cura omeopatica …
Il Terrorismo dall’Alto

Come abbiamo visto, un passaporto e un diploma scolastico possono far mi-racoli. Ma questo non è ancora nulla rispetto a quanto può fare una divisa mili-tare: di fatto, praticamente ad ogni latitudine, basta indossarla per essere immu-ni da ogni accusa di terrorismo. In genere, infatti, “qualsiasi azione attribuibile ad apparati militari di uno Stato – anche la più distruttiva e sanguinaria – non è considerata terroristica” [D. Zolo, Terrorismo, le ragioni dell’“ultima risorsa”, in il manifesto, 19.4.2006].
E infatti il documento del Dipartimento di Stato americano del 2003 intitola-to Pattern of global terrorism ci regala questa definizione: “il terrorismo è una violenza premeditata, politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi infra-nazionali o da agenti clandestini, generalmente per influenzare la popolazione” [B. Valli, L’osceno ventre del terrore, in la Repub-blica, 21.3.2006]. Dell’esercito nessuna traccia: l’esercito, infatti, fa la guerra.
Oggi anche a sinistra è diventato senso comune ritenere che la guerra non sia terrorismo. Nel discorso politically correct più in voga, si può al massimo con-cedere che la guerra “alimenti” il terrorismo, e che quindi rappresenti un modo sbagliato “per combatterlo” e vada condannata per questo. È invece del tutto minoritaria la posizione di Oskar Lafontaine: secondo cui, siccome “terrorismo è sempre l’assassinio di persone innocenti per conseguire fini politici”, quando si fanno le “guerre, in cui molte persone innocenti perdono la vita, questo è ter-rorismo di Stato” [O. Lafontaine, Was ist die Linke?, in Die junge Welt, 19.1. 2006 (http://www.jungewelt.de/2006/01-19/004.php)].
Invece ha ragione Lafontaine. Che la guerra non sia terrorismo è sempre sta-to falso. Ma è particolarmente falso da un secolo a questa parte. Un lettore dello Spiegel, in occasione del 60° anniversario delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ha scritto: “il lancio di due bombe atomiche su due città giapponesi, che ha causato centinaia di migliaia di vittime civili e sofferenze incommensu-rabili sino ad oggi, è, al di là di ogni considerazione strategica, soprattutto una cosa: l’attacco terroristico più terribile ed orrendo della storia” [I. Wibbeke su Der Spiegel, n.32, agosto 2005, p. 12]. Non si tratta di una metafora: questo è letteralmente vero. Ma va subito aggiunto che le bombe atomiche sul Giappone, se rappresentano un drammatico salto qualitativo, sono comunque esse stesse il prodotto di una storia.
Nel novecento il progresso tecnologico non solo ha amplificato la potenza distruttiva della guerra, ma ne ha cambiato regole e modalità di svolgimento. L’aviazione militare, in particolare, ha intrapreso sin dal suo sorgere bombardamenti sulle città. Questi bombardamenti, in quanto coinvolgono i civili, sono terroristici per definizione. Chi lo nega sostiene che è possibile condurre una “guerra chirurgica”, in cui il numero di civili morti sarà al più un “effetto collaterale”, comunque di portata limitata. Al contrario, proprio il concetto di “guerra chirurgica” (uno dei molti ossimori di cui è costellata la letteratura bellica) ci consente di riaffermare la essenziale natura terroristica dei bombardamenti aerei.
Nel 1924 l’inglese J. M. Spaight, uno dei primi e più convinti fautori della “guerra aerea”, tesse le lodi di questo nuovo tipo di guerra sostenendo che “essa può mutare la vecchia, crudele, odiosa e sanguinosa guerra in un’operazione chirurgica di aggiustamento internazionale senza quasi spargimento di sangue”. Questo avverrà grazie all’aeronautica militare, che “punterà ad abbattere il mo-rale della popolazione” [Air power and war rights, 1924; cit. in S. Lindqvist, Sei morto! Il secolo delle bombe, 1999; tr.it., Ponte alle Grazie, Milano 2001, p. 98]. In che modo? Semplice: effettuando bombardamenti terroristici su di essa. Questa tesi era stata apertamente formulata già qualche anno prima dall’italiano Giulio Dohuet nel suo Il dominio dell’aria (1921): dove infatti leggiamo che l’aviazione ha reso obsoleta la distinzione tra “combattenti” e “non–combatten¬ti” e che per avere successo gli attacchi aerei devono essere subito diretti contro grandi concentrazioni di popolazione civile [S. Lind¬qvist, cit., pp. 86-7, 114-5].
Non si trattava soltanto di teorie. Nel 1911 l’aviazione italiana aveva condot-to il primo bombardamento della storia: su Tripoli, in Libia. Seguirono, in rapi-da successione, il bombardamento del Darfur (1916), di Kabul (1919) e di Ba-gdad (1923) ad opera degli inglesi, di Damasco (1925) ad opera dei francesi, in-fine in Etiopia (1936) di nuovo da parte degli italiani, che in questa occasione usarono i gas. A questo riguardo, nel suo (inutile) discorso alla Società delle Nazioni, l’imperatore di Etiopia, Hailé Selassié, denunciò che l’aviazione italia-na aveva “attaccato la popolazione lontano dal teatro dei combattimenti, allo scopo di terrorizzarla e di sterminarla” [ivi, p. 129]. L’anno successivo, il bom-bardamento di Guernica ad opera dei nazisti avrebbe inaugurato i bombarda-menti terroristici sul territorio europeo.
Ma è interessante notare che la natura terroristica dei bombardamenti aerei fu ammessa esplicitamente non solo dalle vittime, ma anche da parte di chi li effettuava. Già nel 1922 un memorandum della Raf inglese indicava i “metodi di terrore” da usare contro gli afgani: bombe a tempo, bombe al fosforo, dardi sibilanti, petrolio greggio per avvelenare l’acqua e “fuoco liquido” (una specie di napalm) [ivi, p. 89]. Per quanto riguarda il terribile bombardamento di Dresda del febbraio 1945, il fatto che si trattasse di un “bombardamento terroristico” non fu soltanto denunciato al Parlamento inglese dal laburista Stokes, ma venne ammesso dallo stesso Churchill, che nel marzo 1945 scrisse ai suoi Capi di stato maggiore: “sento la necessità di una concentrazione più precisa su obiettivi militari, … piuttosto che di meri atti di terrore e di distruzione a casaccio, per quanto d’effetto” [ivi, p. 187-188. Il messaggio di Churchill fu poi reso più eufemistico su pressione dello Stato Maggiore]. Più di recente, la natura terroristica dei bombardamenti Usa contro l’Irak è stata tranquillamente teorizzata dai comandi Usa, che hanno infatti designato il primo attacco aereo su Baghdad col nome di “Operazione “Colpisci e terrorizza”” (“Shock and Awe”). Di rimando, l’attentato terroristico alla metropolitana di Londra del luglio 2005 è stato definito, da un autore tutt’altro che ostile ai terroristi, “Shock and Awe in London” [citato in N.H. Abu Zayd, I falsi interpreti del Corano, in Domenica del Sole-24 Ore, 17.7.2005].

Liberare le parole

In questo modo il cerchio si chiude: il terrore chiama altro terrore, e l’identi¬tà reale di guerra e terrorismo si fa manifesta. Se i teorici della “guerra infinita”, per difendere e giustificare il loro terrorismo, hanno bisogno di usare questo concetto come una fisarmonica, ampliandolo o restringendolo a seconda dei ca-si, noi dobbiamo invece tenere fermo al suo nucleo di significato, e servircene per scardinare le opposizioni rigide ed al manicheismo del discorso dominante.
Per il discorso dominante esistono il Bene e il Male, i Buoni e i Cattivi, la Guerra giusta e il Terrore inspiegabile, la Democrazia e a Modernità alleate contro il Male radicale. È l’appartenenza all’uno o all’altro dei due campi che diviene il metro per giudicare e anche solo per dare un nome alle azioni che vengono compiute: cosicché le torture dei Buoni sono al massimo “abusi”, ma la resistenza che si oppone agli eserciti del Bene è senz’altro “terrorismo”; le vittime dei bombardamenti terroristici degli esportatori di Democrazia sono “ef-fetti collaterali”, ma il “terrorismo suicida” deve essere dichiarato un “crimine contro l’umanità”; un mercenario ucciso diventa un “eroe”, ma i nemici catturati sono “enemy combatants” e non vanno trattati come prigionieri di guerra.
A questa cattiva metafisica e alle sue opposizioni, tanto assolute quanto in-sostenibili, si deve rispondere evidenziandone l’intima contraddittorietà. Nel ca-so della presunta opposizione di guerra e terrorismo, la reale natura del rapporto emerge con forza dal significato stesso dei termini che entrano in gioco: a patto però che queste parole siano liberate dalla camicia di forza in cui le costringono gli slogan dominanti.
Liberare le parole. È un compito di cruciale importanza in un’epoca in cui i poteri dominanti utilizzano come un’arma formidabile il potere delle parole, a sua volta reso possibile dal potere sulle parole: ossia dall’uso sempre più arbi-trario e strumentale delle parole stesse, il cui significato è volta per volta piega-to agli imperativi ideologici del momento.