Di fatto,gli Stati Uniti hanno dato il via libera a Israele per nuovi insediamenti a Gerusalemme Est

Per ridimensionare l’affronto ricevuto dal governo Netanyahu, Biden ha dovuto lodare la decisione del primo ministro israeliano di fare in modo che approvazioni di nuovi insediamenti non si ripetano in occasione di importanti visite di responsabili americani; ma un atteggiamento del genere sottintende che nuovi insediamenti di fatto sono tollerati dagli Stati Uniti – scrive il giornalista israeliano Akiva Eldar

Le scuse presentate dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dal ministro degli interni Eli Yishai ricordano la barzelletta del servo che pizzicò il fondoschiena del re. Sulla via del patibolo, il servo si scusò: pensava si trattasse di quello della regina.

La dichiarazione emessa dall’ufficio di Netanyahu affermava che, alla luce dell’attuale controversia tra Israele e gli Stati Uniti sulla costruzione di nuove abitazioni a Gerusalemme Est, si sarebbe dovuto evitare che i piani per le nuove case nel quartiere di Ramat Shlomo fossero approvati proprio questa settimana. La dichiarazione affermava anche che il premier aveva ordinato a Yshai di mettere a punto delle procedure che avrebbero evitato il ripetersi di un simile incidente. In altre parole, Yishai avrà tutta la libertà di proporre ulteriori progetti per l’edificazione di abitazioni ebraiche a Gerusalemme Est la settimana prossima, ovvero quando il vicepresidente americano Joe Biden non sarà più in Israele.

Sulla base della reazione di Biden, sembra che egli (e, verosimilmente il suo capo, il presidente Barack Obama) abbia deciso che era preferibile ripartire con pochi grappoli d’uva acerba piuttosto che litigare con il guardiano della vigna. Nel suo discorso all’Università di Tel Aviv, Biden ha detto di aver apprezzato l’impegno di Netanyahu a garantire che incidenti del genere non si ripeteranno. Ma che cosa significa ciò, esattamente? Che la prossima volta che egli tornerà in Israele, alla Commissione di pianificazione e edificazione verrà richiesto di rimandare la discussione di simili progetti finché il gentile ospite non sarà ripartito?

Con la tempesta mediatica che si sta placando, Netanyahu può tirare un sospiro di sollievo. In un certo senso, questo clamore in realtà lo ha aiutato: per asciugarsi lo sputo in faccia che aveva ricevuto, Biden ha dovuto dire che si trattava solo di pioggia. Di conseguenza, egli ha lodato l’affermazione di Netanyahu secondo cui l’effettiva edificazione delle nuove abitazioni a Ramat Shlomo sarebbe cominciata solo dopo diversi anni.

Così Israele ha di fatto ricevuto il via libera americano ad approvare un numero ancora maggiore di progetti di costruzione a Gerusalemme Est.

Biden potrebbe non esserne a conoscenza, ma i palestinesi sicuramente ricordano che questo è esattamente il modo in cui cominciò la costruzione del quartiere di Har Homa, a Gerusalemme Est: anche allora Netanyahu persuase la Casa Bianca che l’edificazione sarebbe cominciata solo dopo diversi anni.

Quando Biden è arrivato in Israele, la Lega Araba aveva appena raccomandato che Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), accettasse la proposta di Washington di colloqui indiretti con Israele. Ma, invece di potersene andare con l’annuncio che i colloqui erano ufficialmente iniziati, Biden se n’è andato con la notizia che la Lega Araba aveva sospeso la sua raccomandazione.

Netanyahu può così sperare che il pasticcio di Ramat Shlomo abbia rinviato il momento della verità, quando egli dovrà rivelare la propria interpretazione del principio dei “due stati per due popoli”. E qualora nessuno si fosse reso conto di quanto sono “imparziali” gli Stati Uniti come mediatori, nel suo discorso di Tel Aviv Biden ha affermato che per gli USA non esiste “un amico migliore” di Israele.

Per Netanyahu, il fatto che l’onere di far progredire i negoziati adesso sia ricaduto sulle spalle degli stati arabi è stato la ciliegina sulla torta – proprio due settimane prima del vertice della Lega Araba a Tripoli, dove l’iniziativa di pace araba del 2002 sarà di nuovo messa in discussione. Per mesi, il presidente americano Barack Obama ha tentato di persuadere i leader arabi a non privare questa importante iniziativa del loro sostegno vitale. La sua argomentazione è che niente renderebbe più felice il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad di un colpo di grazia inferto al processo di pace, e dello scoppio di una terza intifada. E la sua gioia sarebbe raddoppiata se essa divampasse a Gerusalemme.

Ma se per il momento gli Stati Uniti stanno cercando di ricucire lo strappo, alcuni diplomatici occidentali dicono che il conto da pagare arriverà una volta avviati i colloqui con l’ANP (ammesso che abbiano inizio). Gli Stati Uniti hanno già detto che durante questi colloqui sosterranno proprie proposte di mediazione, e la loro rabbia e frustrazione per l’incidente di Ramat Shlomo probabilmente li renderà molto più vicini alle posizioni dei palestinesi – sostengono questi diplomatici.

Ad esempio, una fonte israeliana sostiene che Netanyahu vorrebbe che la questione della sicurezza di Israele fosse collocata in cima all’ordine del giorno dei colloqui. Ma i palestinesi vogliono che il primo problema da affrontare sia quello dei confini, Gerusalemme compresa. E l’Unione Europea, che per questa settimana aveva in programma il potenziamento di diversi accordi con Israele in onore della ripresa dei colloqui, adesso ha posticipato questa decisione finché non sarà chiaro se i colloqui riprenderanno effettivamente.

Akiva Eldar è un analista politico israeliano; scrive abitualmente sul quotidiano “Haaretz”

da Haaretz del 13 marzo tradotto e pubblicato in www.medarabnews.com