Di chi è figlio il popolo di Seattle?

In un bell’articolo del 21 aprile (Il bianco e il nero di Seattle), Marco d’Eramo riportava sul manifesto una conversazione con Barbara Epstein, docente all’Università della California. Diceva in particolare la Epstein: “la peculiarità della storia americana sta nel grado di discontinuità tra una generazione della sinistra e l’altra. Ogni generazione ignora quelle precedenti. I giovani pensano: ‘dobbiamo reinventare tutto da capo’. E’ una iattura, perché così ogni generazione riparte da zero, come se la storia stesse appena cominciando, e pertanto ripete esattamente gli stessi errori (di quelle che l’hanno preceduta)”. Ritengo che l’interrogativo con il quale Luigi Cavallaro concludeva la sua riflessione sul movimento “no global” -“che cosa vuole il popolo di Seattle?” -muovesse proprio dalla consapevolezza del sussistere di questa trappola. Si trattava cioè di una sensatissima richiesta, rivolta al movimento, di cominciare ad individuare i presupposti storici della propria stessa esistenza, rinunciando alla contraddittoria fantasia di essere frutto di una generatio aequivoca, intervenuta in assenza di padri e di madri.
Un richiesta resa urgente da alcune rappresentazioni di sé che circolano all’interno del movimento, tutte tese all’apologia della sua conformazione ‘reticolare’. La quale, nella sua negazione di una qualsiasi relazione di ordine gerarchico, “non è assunta come limite connesso al basso grado di sviluppo del movimento, ma come un progresso rispetto alle tradizionali forme dell’agire politico”. Pur senza dirlo esplicitamente, Cavallaro lasciava intendere che, avversando allo stesso modo il capitale e lo stato, ed eludendo qualsiasi resa dei conti con la crisi dei comunisti, queste rappresentazioni si ponevano, forse senza nemmeno saperlo, nella scia dei movimenti anarchici. Il rinvio a Marx svolgeva probabilmente la funzione critica di chiedere: come si può, un secolo e mezzo dopo Miseria della filosofia, ragionare sul mercato alla stessa maniera in cui ragionava Proudhon negli anni ’40 del secolo scorso? Perché, se il mercato avesse realmente consentito un’evoluzione come quella prospetta da taluni sostenitori del “commercio equo e solidale”, i miglioristi alla Saint Simon, alla Proudhon, alla Sigdwick, alla Veblen, alla Polanyi, alla Mumford, e, se vogliamo, alla Olivetti, sarebbero rimasti del tutto inascoltati e ci sarebbe oggi bisogno di un movimento che, pur procedendo da presupposti analoghi – ma ben più povero di contenuti – a quelli di quei pensatori, pretende di essere portatore di capacità radicalmente diverse? Insomma non ci troviamo proprio di fronte ad un fenomeno di inconsistente coazione a ripartire da zero del tipo evocato dalla Epstein?
Il bisogno di un orientamento
L’interrogativo posto da Cavallaro, a mio avviso, non escludeva anche un confronto con chi si muoveva su questa linea. Chiedeva solo che il pensiero – non quello disordinato che si appaga di intuizioni sequenziali, spesso contraddittorie, ma quello che anela a porsi in forme strutturate, perché consapevole del bisogno di una propria costruzione logica e del rischio di una sua componente distruttiva – non procedesse come una talpa. Insomma, Cavallaro cercava solo degli interlocutori maturi, che se sono anarchici, giungano anche a sapere di esserlo. Ma se non sono anarchici comincino ad interagire con i problemi dei loro probabili “padri e madri” chiedendosi da chi provengono e perché sono così restii a riconoscere la loro ascendenza.
E’ qui che la risposta di Cozzo, in Socialità non fa rima con capitale (il manifesto 10 agosto) mostra invece uno dei limiti del movimento. Dice infatti Cozzo: “bisogna smettere di pensare il capitale come l’unico vettore di socialità. Nuove relazioni sociali potranno nascere, piuttosto quando l’Occidente dei “Grandi” permetterà che, con pari dignità circoli e si trasmetta il sapere di tutti i popoli dai quali, almeno in fatto di rapporti comunitari, ha molto da imparare”. In tal modo il processo dello sviluppo viene posto in termini capovolti, cosa che gli anarchici fanno strutturalmente. Si ipotizza cioè che le particolari culture, emerse localmente, abbiano già in sé il germe dell’universalità e siano tutte depositarie di una individualità, che include il riconoscimento dell’altro. (Non l’altro appartenente al proprio contesto locale, bensì l’estraneo che vive in un “mondo” sconosciuto.) Ma Marx pose il bisogno di un nuovo comunismo rispetto a quello cospirativo che l’aveva preceduto e all’anarchismo, appunto perché negava l’esistenza di una dinamica di questo genere, insisteva sul carattere intrinsecamente localistico delle culture umane precapitalistiche, e riconosceva al capitale di costituire la prima contraddittoria forma della ricchezza generalmente umana. Tutta la teoria marxiana sulla scissione del sé tra borghese e cittadino – ignorata dalla quasi totalità degli individui contemporanei, nonostante ne soffrano in prima persona – è la descrizione della perversa via attraverso la quale gli individui, cresciuti localmente, imparano a cooperare con altri esseri umani, che non conoscono e nei confronti dei quali si sentono indifferenti. Una cooperazione che non cessa di essere tale per il fatto di presentarsi nella forma zoppa della proprietà privata. Come si può discutere sensatamente con chi questa problematica la ignora o la sottovaluta, e, figlio delle proprie fantasie, immagina di essere sempre capace di cooperare con altri, e che con lui lo siano sempre stati tutti gli esseri umani, per natura?
Né si può discutere sensatamente con chi non riconosce i vincoli delle forme, cioè la complessità dello sviluppo umano. “Nella nostra logica”, dice ad esempio Gesualdi, “il commercio non può essere un fine in sé, ma uno strumento per servire gli interessi della gente”. Ma l’unica descrizione seria del mercato, che dobbiamo proprio a Marx, riconosce che le intenzioni degli individui si fermano necessariamente alla soglie di quel rapporto, e che qualsiasi “discorso politico” sovrapposto al prezzo è ridondante. (Chiunque ragiona come Gesualdi dovrebbe chiedersi seriamente, cioè documentalmente, perché l’encomiabile esperienza di Owen non sia diventata modello generale e perché Polanyi abbia avuto lo striminzito seguito che ha avuto). Certo nel frattempo le imprese hanno imparato a subordinare parzialmente il mercato, ed usano la pubblicità e il lobbysmo per far valere i prezzi che somministrano, cioè fanno “discorsi politici” per ottenere effetti economici. Ma, si tratta appunto di uno di quei fenomeni del contraddittorio sviluppo di capacità nuove, che, cercando di esprimersi sulla vecchia base, generano una lacerante dinamica sociale. Se i movimenti alternativi non vogliono scimmiottare questa pratica – anche se purtroppo in molti lo fanno – non possono indulgere in locuzioni che, prive di un briciolo di autocritica, confermano la prassi delle classi egemoni. Chi pratica un prezzo che tenta di tener conto di un insieme di elementi relativi a scelte produttive alternative, lungi d’accontentarsi di questa sua intenzione, deve riconoscere che sta cercando di mettere in discussione il principio di equivalenza. Insomma deve, modestamente imparare l’insegnamento di Marx sulla natura del rapporto di merce, ed indicare nel concreto, come spera di spingersi al di là di esso. In questo processo i mutualisti e gli anarchici non possono fingere di trovarsi in una posizione migliore rispetto ai comunisti. La loro debolezza passata non costituiva l’espressione di un arbitrio imposto congiuntamente da capitalisti e comunisti. Era semmai la manifestazione della debolezza intrinseca delle posizioni che cercavano di far valere, nei confronti delle quali gli orientamenti alternativi erano oggettivamente prevalenti.
In genere si procede invece in maniera opposta. Nel tentativo di sottrarsi al potere dei propri avversari, non si fanno i conti con le critiche che questi hanno rivolto ai dissidenti del passato. Ci si limita a proclamarsi diversi, come se veramente si potesse calcare la scena con questa ridicola verginità sociale. Dunque, non solo l’interrogativo di Cavallaro è sensato, ma è l’unico che può contribuire a risvegliare il movimento da uno stato ipnotico che certamente non aiuterebbe il suo procedere consapevole.
L’inizio di un duro lavoro?
In che cosa si risolve dunque l’appello di Cavallaro? Ritengo che si possa rispondere: nella richiesta del riconoscimento che il lavoro connesso alla costruzione di un’ipotesi di sviluppo alternativo deve ancora cominciare, e che il movimento “no global” può sperare in una qualche prospettiva futura solo se si confronta approfonditamente con il problema dei suoi stessi presupposti storici. Nessuno mette in dubbio che finalmente un bisogno esistente stia rozzamente tentando di esprimersi. Ma l’esistenza di un bisogno non costituisce di per sé garanzia della sua soddisfazione. Chi ha vissuto da adulto gli anni Sessanta e Settanta sa che in quegli anni la società ha espresso un forte bisogno di cambiamento, ma coloro che ne erano portatori sono stati incapaci di dargli una forma socialmente valida. Travolti dalla confusione che è scaturita dalle loro stesse rivendicazioni essi hanno finito col diventare afasici. Ora si può fingere che fossero al di fuori della storia, e pretendere, come diceva la Epstein, di ripartire da zero. Ma si sbaglierebbe. Così come si sbaglierebbe a seguire la sollecitazione di Roberto Bosio: “non si potrebbe iniziare a scrivere in modo da essere capiti da tutti?” (Il libero commercio? Non esiste. il manifesto 14 agosto). Il sapere non è infatti “una colomba arrostita che vola in bocca a chi vuole mangiarsela”. E’ sempre il risultato di un duro lavoro e presuppone individui che, di fronte alla difficoltà di comprendere, non se la prendono con chi scrive, ma con se stessi, che ancora non hanno imparato a leggere. Questa può anche essere una colpa imputabile ai padri e alle madri. Ma in tal caso saranno comunque i figli a doverla espiare. Se chiederanno al mondo di essere trasparente e di non creare problemi interpretativi si limiteranno a vivere nell’errore dei loro genitori. Contribuiranno cioè a ritardare la soluzione dei problemi di cui soffrono, pretendendo che il mondo sia a loro misura e non che essi finalmente giungano ad essere all’altezza della misura del mondo.