Detenuto fantasma nell’aereo atterrato a Roma

L’aereo della Cia che è atterrato a Roma l’8 ottobre 2002 trasportava un sequestrato: un innocente rapito per sbaglio e liberato dopo un anno di torture disumane in una prigione segreta nel deserto in Siria. Maher Arar, cittadino canadese di origine siriana, è stato vittima di uno dei più clamorosi infortuni della Cia: «almeno tre dozzine di errori di persona», secondo il Washington Post , che denuncia «come sia complicato correggere gli sbagli di un sistema che opera in segreto». Dopo l’11 settembre gli Stati Uniti hanno eseguito nel mondo un numero sconosciuto di extraordinary renditions : 150 i casi accertati, ma secondo fonti Usa sarebbero 3.000 le «consegne speciali» di semplici sospettati di terrorismo, catturati senza processo e trasferiti con voli segreti in Stati accusati di torturare i reclusi. Un sistema da inquisizione medievale, secondo la stampa americana, dove «nessun giudice controlla le prove» e il detenuto può solo sperare «che sia la stessa accusa ad ammettere l’errore».
Maher Arar è uno dei pochi rilasciati, grazie ai disperati appelli della moglie, che è cittadina canadese come lui e ha potuto mobiliare ambasciatori e politici. Ingegnere titolare di un’impresa high-tech , Arar vive dal ’97 in Canada, ha due figli di 3 e 8 anni e non ha mai avuto problemi con la legge. Nel settembre 2002, di ritorno da una vacanza in Tunisia, è stato fermato a New York mentre aspettava il volo per Montreal. Gli agenti gli chiedevano di un certo Abdullah Almaki, che gli fece da garante per il suo primo affitto. Arar ha risposto che lo conosceva appena: «Ero amico del fratello, che gli ha chiesto di firmare al posto suo perché quel giorno era impegnato». Tanto è bastato. Il 4 novembre 2003 Arar, rimandato in Canada, ha denunciato pubblicamente di essere stato torturato in un carcere segreto dei servizi siriani, chiamato «Sezione Palestina». «Ero rinchiuso sottoterra, in una cella di sei piedi per tre, chiamata “La Tomba”. Era piena di topi e sempre buia. Gli interrogatori duravano anche 18 ore. Mi picchiavano brutalmente, mi torturavano con catene di ferro e scosse elettriche e ogni sera mi dicevano: “Domani sarà peggio”. Ero sempre terrorizzato, perché nelle pause ci facevano sentire gli altri detenuti che urlavano per le torture».
Già allora Arar parlò di Roma. «L’8 ottobre 2002, alle 3 del mattino, gli agenti americani mi portarono, incappucciato e incatenato, in un aeroporto del New Jersey. Chiedevo un avvocato, ma mi rispondevano che loro non applicano la Convenzione di Ginevra. Siamo atterrati a Washington, dove li ho sentiti dire che la Siria non voleva un volo diretto. Quindi abbiamo fatto scalo vicino a Portland e poi a Roma. Mi tenevano incatenato anche in aereo. Ero spaventatissimo. Alle tre di notte siamo atterrati ad Amman, dove 6 o 7 uomini hanno cominciato subito a picchiarmi. Volevano farmi dire che ero un terrorista addestrato nei campi di Bin Laden, ma io non sono mai stato in Afghanistan!».
I registri dell’ente Usa di controllo dei voli ( Federal Adviation Administration , Faa), che il Corriere ha potuto consultare, confermano che il prigioniero ha effettivamente fatto scalo a Roma: l’8 ottobre 2002 l’aereo-prigione della Cia con matricola N829MG, cioè il Gulfstream III che trasportava Arar, è decollato da Teterboro (New Jersey) alle 9.40 e dopo uno scalo a Washington Dulles è ripartito da Bangor (nel Maine, sulla rotta di Portland) alle 13.36 per arrivare a Roma. È il secondo caso conosciuto di rendition che coinvolge direttamente l’Italia. Secondo tutte le fonti americane interpellate ieri, è «impensabile» che la Cia non abbia avvisato i nostri servizi, «quantomeno per evitare un controllo casuale».