Dentro la Consulta

Ripudio della guerra e della pena di morte, rispetto fra stati indipendenti, sostegno alla diffusione di assetti democratici, conformità alla Costituzione italiana e ai principi di quella (a venire) europea, pluralismo religioso, libertà di coscienza e di espressione, diritti del minore, parità dei coniugi. Con la sua «carta dei valori», Giuliano Amato sembra voler ancorare la consulta islamica e la sua presenza nella società italiana a una serie di principi democratici. L’intento – lavorare per l’integrazione della comunità islamica con un percorso dialogico e condiviso – è apprezzabile e il movente – suscitare una forma di pubblica excusatio, diretta o indiretta, dell’aberrante equazione dell’Ucoii fra stragi israeliane e stragi naziste – anche. Qualche domanda tuttavia si impone, rispetto alla forma, ai contenuti e all’efficacia dell’operazione. Nell’ordine: qual è, formalmente, il tipo di rapporto fra stato italiano e comunità islamica che il tavolo con la consulta configura? E’ legittimo, o non è autocontraddittorio, chiedere insieme l’adesione al principio della libertà di coscienza e d’espressione e l’adesione agli altri valori su elencati (nonché l’autocritica sull’equazione israele-nazismo)? E qualora la carta venisse accettata e firmata, di che cosa sarebbe garanzia, o che cosa ne garantirebbe l’applicazione?
Si sa che, in materia di integrazione multiculturale, ovunque i principi occidentali vacillano e ovunque la loro formalizzazione giuridica mostra insormontabili aporie; ovunque si procede per tentativi e verifiche successivi; ovunque il dibattito pubblico è stato, negli ultimi venticinque anni, intenso e irrisolto (e quello italiano delle ultime settimane lo ricalca punto per punto con toni alquanto naif). Tuttavia il caso della consulta islamica mette a nudo alcune contraddizioni sulle quali è bene soffermarsi. In primo luogo: è legittimo che uno stato laico, basato sulla cittadinanza individuale e sulla rappresentanza politica, tessa rapporti istituzionali con un organismo comunitario basato su una rappresentanza religiosa? Daniele Capezzone denuncia a questo proposito una sorta di «deriva concordataria» dello stato italiano e non gli si può dare torto (tanto più che in questo caso non c’è nessun – controverso – articolo 7 della Costituzione ad autorizzarla).
In secondo luogo. Se è non solo lecito, ma dovuto, sanzionare pubblicamente la posizione dell’Ucoii sulla Shoah – che viola un tabù fondativo della civiltà europea emersa dalla colpa del nazismo, e pertanto è per la coscienza europea inaccettabile – , è altrettanto lecito chiedere ai membri di una cultura politica e religiosa diversa dalla nostra l’adesione formale ad alcuni nostri principi giuridici, per quanto basilari? Prendiamo il caso della parità fra coniugi e del rispetto della dignità femminile, materia sulla quale concordare con le intenzioni di Giuliano Amato è più che scontato; e tuttavia la strada da lui proposta appare opinabile, perché assimilativa, e spuntata, perché non è con l’adesione formale a una carta di valori che si sradicano strutture culturali e di potere profonde come quelle che attengono ai rapporti fra i sessi. E qui arriviamo al terzo quesito, quello sull’efficacia, ovviamente imprescrutabile, della proposta di Amato, anche nel caso in cui la consulta l’accettasse.
Di tentativo in tentativo, la strada del multiculturalismo è stata fin qui lastricata di molti fallimenti (ma non solo di fallimenti, va tuttavia ricordato). Né la soluzione comunitarista né quella liberale, né Taylor né Habermas, hanno dato «la» risposta. Ce n’è un’altra, non per caso elaborata da alcune studiose femministe e postcolonialiste del problema. Non passa né per la rappresentanza e la tutela delle comunità (che è sempre rappresentanza e tutela dei più forti in ciascuna comunità), né per la difesa astratta delle libertà individuali (occidentali). Passa per la narrazione, l’elaborazione discorsiva, l’interpretazione degli attriti e dei conflitti che le società multiculturali inevitabilmente attivano; passa per la decostruzione, non per la difesa perimetrata delle identità e delle culture che vi si scontrano. E’ un lavoro interminabile, con poche garanzie di legge, ma è anche il solo attraverso cui nella società globale si ricostruiscono sfera pubblica e lingue comuni.