Dentro il Novecento

E’ un libro molto denso, elaborato e minuzioso, e quindi avrei dovuto trovarlo indigesto. Invece è attraente e seduce chi lo legge, provocando adesione o rigetto come un film sadico, Questo vuole essere un complimento. Parlo dell’ultimo libro di Marco Revelli, di cui questo giornale ha già detto amichevolmente e di cui ai continuerà a parlare da diversi punti di vista.
Non sono un recensore adatto perché fordismo e postfordismo sono termini un po’ abusati e stereotipati (oggi anche Chaplin intitolerebbe il suo vecchio film Tempi fordisti) e come chiavi di interpretazione del mondo a me sembrano improprie. Vorrei solo dire che questo libro mi ha fatto molta impressione: molta e cattiva.
Siccome racconta il Novecento (un secolo non breve ma lunghissimo, nel quale anch’io ho vissuto) e ne mette in risalto i mali estremi con l’intento di fugarli l’ho letto per trovare un’assonanza. Vedo infatti (o ricordo) questo secolo come catastrofico e per di più non credo che stia alle nostre spalle (concordo con chi ha definito Auschwitz una prima prova in un teatro sperimentale di provincia di uno spettacolo da replicare). Ma non ho trovato l’assonanza che cercavo.
Com’è stato già detto il libro individua il nemico principale dell’homo faber, nemico principale di se stesso: ossia la produzione onnivora, il lavoro totale e totalitario, il “regno delle cose” che annulla ogni intimità. Può non essere un’idea originale ma è espressa con efficacia. Qui c’è assonanza, anch’io ho massima antipatia per quell’homo anche se non credo che sia stato inventato da Ford, se credo che sia così per nascita e non per distorsione storica, che il possesso sia la sua vocazione e che perciò è difficile trovare una soluzione.
Ma la vera novità del libro sta nella radicalità con cui demolisce, in coerenza con l’impostazione generale, tutto il comunismo novecentesco dalla prima all’ultima pietra, anzi dalla prima all’ultima maceria. Comunismo novecentesco inteso come movimento, teoria e pratica, che voleva rovesciare il “regno delle cose” e ne ha invece ereditato i meccanismi e ricalcato i caratteri costituitivi portandoli all’esasperazione: le rivoluzioni del secolo come un gigantesco esempio di eterogenesi dei fini, la nuova società concepita come una grande fabbrica virtuosa, Gramsci paradossalmente come Ford.
E’ probabilmente, sotto questo aspetto, il libro più organicamente anticomunista che io abbia letto.
E’ come se l’autore volesse spianare il terreno in modo che l’erba non possa più crescervi (rischio peraltro inesistente per almeno cinque generazioni). Colpisce al cuore l’esperienza del movimento operaio e delle sue espressioni politiche (molto più che il socialismo reale e parecchio di più che una incarnazione novecentesca) nei motivi ispiratori se non nelle idealità, nel formulano concettuale, nei moduli organizzativi. E poichè è scritto da una intelligenza di sinistra antitetica alla cultura dominante (malgrado qualche eclettico riferimento letterario) ha una forza di suggestione che i post-comunisti non hanno quando vilipendono il proprio passato né i revisionisti quando falsificano la storia.
Il messaggio che arriva (parlo per me) non è però quello liberatorio desiderato dall’autore: forse anche i libri patiscono una eterogenesi dei fini. Il quadro generale (il tumulto e la barbarie del secolo, “il tempo degli assassini”, la mercificazione universale) restano sullo sfondo come uno scenario inerte e il disastro delle rivoluzioni prometeiche balza invece in primo piano come protagonista negativo assoluto, immiserito e spogliato di ogni tragica grandezza, in un buio dove non balugina neppure un cero funebre. Non si tratta più di una fatale aberrazione (i mezzi che divorano i fini, il morto che afferra il vivo) ma di una ottusa idiozia: monumentale e inspiegabile.
Forse questa ingenerosità del libro, per cosi dire, dipende dal fatto che l’autore ragiona
esclusivamente all’interno dell’universo unidimensionale che avversa e non avanza domande o risposte che a quell’orizzonte culturale sono estranee. Il marxismo (qualcuno lo ha detto) contiene in sé molti tesori nascosti, ma il pensiero di sinistra che in un modo o nell’altro ha questa derivazione non li ha dissepolti e non ammette che tra cielo e terra ci siano più cose di quelle riconducibili al toyotismo. Perciò vincono le metafisiche e le religioni, che rinviano tutto al “peccato originale” (a cui preferisco tra parentesi l”‘amor proprio” leopardiano, inteso come regolatore di ogni comportamento: forse in questo secolo non c’è stata alcuna eterogenesi dei fini ma un loro trionfo). Finché non ci sposteremo o non dilateremo il piano del nostro discorso fuori dall’economicismo non ce la caveremo.
Tra i pregi di questo libro c’è senz’altro quello di avermi tolto ogni illusione riguardo a possibili vie d’uscita (dico per dire, non ne avevo da tempo). La solidarietà che prospetta è un concetto cristiano-sociale più che un’eco del comunismo utopico o una sintesi bonaria di libertà-uguaglianza-fraternità, un buon paracadute per non farsi troppo male atterrando ma che non vale per risalire. E’ difficile credere che un “io” microsociale in sostituzione di un “noi” megapolitico possa fronteggiare le colate di lava eruttate in ogni direzione dalle moderne oligarchie. E de è vero che volontario è meglio di militante, come suono o anche in senso esistenziale, temo che tra vent’anni questa figura sociale: sarà altrettanto maltrattata: come un ingenuo supporto del sistema dominante
Ma c’è nel libro anche un altro pregio di segno opposto, quello di indurre a una reazione salutare. Mi impone di ricordare e di sostenere che abbiamo prima di tutto un debito di riconoscenza verso il movimento operaio novecentesco e le sue contraddittorie espressioni politiche, perché se fosse dipeso da Kypling o anche da Tocqueville e dalla borghesia illuminata del nostro secolo nessun popolano occidentale o servo orientale avrebbe smesso di chinare il capo di fronte al padrone e imparato l’alfabeto, e nessuna lavandaia avrebbe mai avuto diritto di voto. Mi viene perfino la tentazione di ringraziare Stackanov, se per suo merito o demerito 147.200 guerrieri ariani sono sepolti sotto le nevi di Volgograd.
E soprattutto ci tengo a dire, poiché sono stato pur sempre un militante come anche Revelli lo è, che molti di loro erano uomini semplici ma non creduloni irregimentati. Che fossero troppo devoti a una bandiera simbolica (ma anche nobile e risolutiva in terribili circostanze) è dopotutto un buon ricordo che vorrei sottrarre alle ingiurie del tempo.