Denaro Usa a ruota libera, tassi nipponici e carry trade

La banca centrale nipponica ha deciso di mantenere il tasso di interesse allo 0,5%. Continuerà quindi alla grande il meccanismo del carry trade, cioè prendere a prestito yen a tassi bassi per cambiarli e piazzarli in titoli, prevalentemente pubblici, sui quali vengono pagati interessi molto più elevati. La politica di denaro a ruota libera perseguita dalla Federal Reserve americana dal 2001 fino ai recenti rialzi dei tassi statunitensi, assieme alla politica iperkeynesiana del Giappone, hanno creato una vera e propria bolla speculativa mondiale. Il fenomeno notato l’anno scorso in Islanda ed Ungheria, si è andato ampliando coinvolgendo paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda le cui monete sono soggette ad un forte rialzo mentre i conti esteri dei suddetti paesi presentano dei deficit il cui ordine di grandezza relativa alle economie nazionali è simile a quello degli Stati Uniti. L’Australia e la Nuova Zelanda hanno infatti dei tassi di interesse molto superiori a quelli nordamericani ed europei. L’economia di ambedue gli stati si sostiene su un indebitamento crescente delle famiglie. La formazione dei prodotti derivati moltiplica la disponibilità di liquidità mondiale e permette quindi sia massicce operazioni di fagocitamento monopolistico attraverso le società dette «equity investment», sia il finanziamento dei debiti delle famiglie. Tuttavia di fronte ai recenti rialzi dei tassi negli Usa uno strato crescente di popolazione gravita verso uno stato di insolvenza senza rimedio.
La situazione finanziaria mondiale si trova pertanto su un sentiero molto stretto e la capacità di non finire fuori strada dipende essenzialmente dalla Federal Reserve grazie alla disponibilità della Cina e del Giappone a riciclare automaticamente i loro surplus di parte corrente verso titoli nordamericani. Il panorama è caratterizzato dal fatto che anche piccole variazioni nei tassi praticati dalla Federal Reserve possono dar luogo a grossi e subitanei movimenti nei flussi di denaro in altre parti del mondo. Inoltre in Asia anche i legami economici intra-asiatici dipendono dai rapporti economici con gli Usa i quali chiudono il circuito del realizzo del commercio estero asiatico. In tale contesto qualsiasi decisione della Federal Reserve riguardo il mutamento del saggio di interesse può risultare «sbagliata». Infatti se, come sembra, prevale l’opzione antinflazionistica un eventuale aumento dei tassi allargherà il numero delle famiglie Usa che precipitano nella fascia della «delinquenza finanziaria», cioè che non possono pagare i mutui, mentre acuirà ulteriormente il deficit estero statunitense a favore della Cina ed in misura molto minore del Giappone. La Federal Reserve invertirà la rotta solo se il rallentamento dell’economia si manifesterà in una maniera talmente forte da far temere un vera e propria recessione. In questo caso l’effetto della riduzione dei tassi allenterà la pressione sulle famiglie ma non influirà sulla ripresa a breve tempo degli investimenti per cui non ridurrà l’eventuale aggravarsi della debolezza salariale che, negli Usa, ormai è diventata la forma principale di adeguamento del mercato del lavoro alle condizioni macroeconomiche. Non penso che le autorità di Washington abbiano lo stesso spazio di manovra nel gestire la politica monetaria come ai tempi di Greenspan. La stampa economica nordamericana va ripetendo fino al parossismo che gli Usa stanno perdendo la centralità dei mercati finanziari mondiali mondiali. Questo fatto ha molto a che vedere con la politica di liquidità a go-go perseguita dal 2001 in poi. Tuttavia la riduzione del ruolo finanziario mondiale delle piazze americane è un problema che tocca lo struttura di interessi capitalistici negli Usa se pensiamo all’alleanza tra settore energetico, sistema militar-industriale e finanza che governa con pugno di ferro il paese dal 2001. La situazione è quella di un enigma senza risposta. L’unica cosa certa è che la guerra continua, ma gli orizzonti economici anche a breve termine sono imperscrutabili.