Democratici, dalla batosta al ricambio «motivazionale»

Il 2 novembre 2004 è stato un vero «giorno dei morti» per il partito Democratico. Il suo candidato alle elezioni presidenziali, John Kerry, un candidato forte, qualificato, e che era stato a lungo in testa nei sondaggi subiva una dolorosa sconfitta. 3 milioni di voti popolari meno del presidente in carica George W. Bush e 34 voti in meno nel collegio elettorale, anche se il risultato è messo in dubbio (e in parte lo è ancora) dalla «strana» vittoria di Bush in Ohio.
Altrettanto grave, la sconfitta al Congresso, dove i democratici contavano se non di riguadagnare il controllo dei due rami del Parlamento, almeno di limitare il vantaggio dei repubblicani. Il risultato anche qui è devastante la maggioranza repubblicana sale di quattro seggi al Senato e di 3 alla Camera (tutti e tre dovuti a un ridisegno un po’ truffaldino da parte del Gop dei distretti elettorali in Texas). Non è stata la più grave sconfitta democratica della storia, ma certo una delle più amare. A far sanguinare il partito dell’asinello sono la straordinaria mobilitazione dei militanti integralisti cristiani sul tema dei matrimoni gay (ci sono undici referendum in altrettanti stati per bandire le unioni omosessuali) e la «guerra al terrorismo» su cui Bush chiede, e vince, una specie di referendum. Ma il presidente è già indebolito dall’andamento della guerra ed è un errore tutto dei democratici (e dello stesso Kerry) non aver attaccato la guerra in Iraq, la montagna di bugie su cui è stata lanciata l’invasione, le violazioni dei diritti umani dei prigionieri in Iraq e a Guantanamo e l’indebolimento dei diritti civili per gli stessi americani.
Dal disastro di novembre i democratici iniziano a riprendere fiato. Il 12 febbraio 2005 Howard Dean, ex-governatore del Vermont ed ex-candidato presidenziale viene chiamato a dirigere il Partito. E’ personaggio controverso, ma certamente non teme lo scontro con i repubblicani, non ha paura di definire il partito in termini antagonistici. I repubblicani dicono che Dean è per loro «un dono e una benedizione» perché alienerebbe gli elettori di centro. Ma Dean si rivela uno straordinario «fund raiser», portando nelle casse del partito, anche attraverso un sapiente uso di Internet, più dollari di qualsiasi altro presidente del partito prima di lui. Parallelamente cresce il peso delle organizzazione di base, che agiscono quasi esclusivamente in rete. E’ la cosiddetta «blogosfera», siti come DailyKos e, soprattutto MoveOn.org, con forti connotazioni progressiste e una nettissima opposizione alla guerra.
Sono guardati come radicali marginali e disprezzati sia dai repubblicani che dai centristi del partito (non da Dean). Ma MoveOn.org ha 3 milioni di aderenti, raccoglie milioni di dollari per finanziare campagne di democratici progressisti sia contro i repubblicani che contro democratici moderati e pro-guerra come Lieberman. Ma è lo scenario irakeno a cambiare radicalmente le carte della politica statunitense. Da gennaio la popolarità di Bush scende a precipizio, toccando i 32 punti a maggio, il livello più basso di qualsiasi presidente Usa. Bush è debole, nel partito repubblicano si riaprono le vecchie divisioni tra i moderati e un’ala estremista-religiosa sempre più influente e impaziente. I repubblicani adesso temono di perdere le elezioni di «mid-term» nel prossimo novembre. Hanno un vantaggio di 15 seggi alla Camera e di di 6 al Senato, ma gli ultimi sondaggi (Associated Press di luglio) confermano un netto orientamento degli elettori a favore dei democratici per il voto del 7 novembre.
Nonostante questo, sulla guerra quasi nessuno dei democratici decide di sfidare apertamente il presidente. La stessa Hillary Clinton è penosamente reticente e contorta. Fino a quando all’orizzonte non spunta Ned Lamont, un (ricco)«signor Nessuno» che a marzo è accreditato del 4% di consensi nella sua battaglia nelle primarie del Connecticut contro il senatore democratico più amico di Bush, Joe Lieberman. Contro la guerra, ma anche per una nuova politica sociale e per un nuovo partito democratico, Lamont è protagonista di un vero miracolo politico, defenestrando un senatore in carica nelle primarie: è successo solo quattro volte negli ultimi 25 anni.