Deficit della sanità, si arricchiscono i privati in convenzione

La regione Liguria è salva: l’annuncio ufficiale è stato dato ieri durate
la seduta del consiglio regionale dallo stesso Claudio Burlando. Il governatore ha annunciato che «il piano di rientro per colmare il deficit sanitario 2005 è stato accolto dal ministero dell’economia». Ma per una regione salva, altre 5 rimangono nei guai. In totale sono quasi 3,5 miliardi gli euro che Lazio, Sicilia, Abruzzo, Molise e Campania devono reperire per coprire il disavanzo sanitario del 2005. Se entro la fine del mese non presenteranno piani di risanamento adeguati, scatteranno gli aumenti automatici di Irpef e Irap, previsti nell’ultima finanziaria, per coprire i disavanzi. Anzi, per quanto rigurda l’Irap, i contribuenti delle cinque regioni ieri hanno già dovuto pagare la maggiorazione sull’acconto per il 2006. Alcuni giorni fa l’Ufficio studi della Cgil di Mestre ha fatto i conti di quanto cittadini e imprese saranno chiamati a pagare per tappare il «buco» sanitario: per l’Irpef si va dagli 89 euro per ogni contribuente del Lazio, ai 13 euro per i molisani. Quanto all’Irap, ogni azienda del Lazio dovrà sborsare 2.266 euro in più, che si riducono a 1.261 per le aziende molisane. Le regioni interessate sono in fibrillazione: promettono di tagliare gli sprechi, di ridurre le prestazioni diagnostiche, i posti letto (oltre 2800 nel Lazio), di chiudere alcuni ospedali, di ridurre i giorni di degenza o perfino di annullarli, con interventi day Hospital. Infine, di coinvolgere i medici di famiglia perché curino di più direttamente e ricorrano meno alla diagnostica all’esterno, filone prospero per le strutture convenzionate. Secondo la Confesercenti gli «sprechi» nella spesa sanitaria superano i 17 miliardi di euro e su questi presunti sprechi deve essere concentrata l’azione di governo. Ma quello che più drammaticamente sembra emergere è una forte riduzione del «diritto alla salute» già oggi estremamente precario in molte regioni. La sanità nel 2006 assorbirà risorse per oltre 90 miliardi di euro. Cifre ufficiose indicano, invece, che la spesa sarà di circa 95 miliardi, 5 miliardi di più. E questa volta a sfondare il tetto saranno quasi tutte le regioni italiane. L’obiettivo della Turco (che non vuole introdurre nuovi ticket) è cercare di stabilizzare la spesa nel prossimo triennio attorno al 6,6% del pil. Apparentemente sulla spesa sanitaria gira molto denaro, ma non è così. Certo, denaro ne girà molto, ma in maniera squilibrata e con i soldi pubblici prosperano e fano utili le strutture private. In ogni caso, per la sanità l’Italia è agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali (ovviamente dei paesi industrializzati). E lo è anche se per fare il confronto sommiamo alla spesa pubblica e convenzionata (fonte di gravi episodi di corruzione, come mostrano le ultime inchieste) quella privata che è in forte crescita. «Il pubblico non basta più», era il titolo di un capitolo dell’ultimo Rapporto Censis pubblicato in dicembre. Ma perché è scoppiato questo bisogno di convenzionato e privato? Le associazioni di difesa dei consumatori non hanno dubbi: in molte regioni (purtroppo quasi tutte del Centro-Sud) il privato supplisce le carenze del pubblico «sfruttando» l’ansia di salute di ognuno di noi. Non si tratta solo della sistemazione «alberghiera» che caratterizza quasi tutte le strutture private, ma soprattutto i tempi di attesa per accedere a determinate prestazioni. Anche in questo caso le associazioni dei malati ci aiutano a capire la scandalosa situazione: mesi di attesa per mammografie e altre analisi diagnostiche. A tutto però c’è rimedio: le strutture che operano in convenzione – quelle interessate dagli scandali di questi giorni – sono in generale molto più efficienti e guadagnano sfruttando il doppio lavoro dei dipendfenti pubblici. Poi c’è l’intramoenia che dà in tre giorni quello per cui «normalmente» occorrono più di tre mesi. E poi, ovviamente, c’è il privato «tradizionale» che quasi sempre opera con medici e personale paramedico spesso di strutture pubbliche, risultato di una riforma del tempo pieno che non è stata fatta.
Secondo molti in alcune regioni la spesa farmaceutica è esplosa a causa dell’abolizione dei ticket. Può darsi: quello che è certo che pagare o meno i ticket sui farmaci porta a una differenziazione dei diritti tra i cittadini, i malati e i contribuenti. Ma soprattutto fa comprendere che non può esistere una politica sanitaria regionale, perché la salute è un diritto universale e come tale va affrontato a livello di governo centrale con obblighi, diritti e doveri uguali per tutti. In ogni caso, in un paese che brilla per evasione fiscale, legare il ticket, come propongono molti, al livello di reddito rischia di costituire una beffa per i malati veri non benestanti. Chi non ci crede, provi a guardare quello che accade per gli asili nido che traboccano di figli di bottegai e escludono i ceti medi.