Vertice serale ieri a palazzo Chigi tra Prodi, Parisi e D’Alema. Un incontro al massimo livello finalizzato a preparare l’orientamento del governo sull’imminente, delicatissimo, voto parlamentare sulle missioni militari all’estero. Le quotazioni di un decreto separato missione per missione al momento sono decisamente in ribasso, anche se ogni decisione verrà formalizzata o nel consiglio dei ministri di venerdì o in quello successivo del 30 giugno. Il tempo stringe perché a fine mese scade il finanziamento di tutte le missioni. La quadra, dal versante governativo, si potrebbe chiudere su un decreto «di ritiro» che verta solo sull’Iraq, accorpando tutte le altre missioni compreso l’Afghanistan inun testo a parte.
La sinistra pacifista non demorde. Diliberto del Pdci insiste per un vertice dei segretari che discuta il da farsi, anche se fonti di palazzo Chigi escludono che l’incontro si faccia davvero: «Ci si sentirà al telefono ma nulla di più». La questione è delicata. Il ministro degli esteri Massimo D’Alema illustra alla stampa estera a Roma che la discontinuità con la politica estera del governo Berlusconi è avviata: «Faremo azioni eticamente ispirate», assicura il presidente della Quercia, citando non a caso l’«intollerabile» situazione in Darfur. Anche sui Balcani e sull’Asia potrebbero esserci novità significative. La Farnesina ha aperto un dossier ad ampio raggio da presentare in consiglio dei ministri. Il vicepremier ha ammesso così che la missione in Afghanistan rappresenta «l’unico punto vero di dissenso» nella coalizione di centrosinistra, precisando però che a suo avviso «anche chi è più critico non chiede il ritiro ma si oppone solo a un aumento dei soldati italiani».
In parlamento la sinistra pacifista e comunista lavora alacremente su un intergruppo che sia alla camera che al senato dia il senso istituzionale di una politica estera corrispondente al mandato elettorale. Le voci di una fiducia sul decreto per le missioni militari però non sono ancora dissipate. Anzi.
Per Rifondazione «la fiducia non può essere un burqa». «L’Unione – dicono da via del Policlinico – ha dimostrato di poter vincere nonostante la grande rimonta di Berlusconi. Ora dobbiamo dare corpo a quella discontinuità con le politiche precedenti che scongiurino lo status quo o peggio il ribaltamento del mandato elettorale con le manovre al centro». Della mozione di indirizzo sulla politica estera chiesta dai capigruppo dell’Unione di camera e senato, però, per ora non c’è traccia. «I decreti varati dal consiglio dei ministri possono sempre essere modificati dal parlamento», avvisa Ramon Mantovani (Prc), delegato dalla segreteria a trattare la materia. I paletti sull’Afghanistan sono chiari: revisione delle regole di ingaggio, esclusione delle operazioni al Sud o in teatri di guerra guerreggiata, nessun caccia Amx o invio di truppe speciali.
Chi punta a qualcosa in più, come una exit strategy che prepari il rientro da Kabul non molla. «Siamo consapevoli che siamo in una coalizione e che il programma non ha sciolto questo nodo, però dobbiamo costruire da subito le premesse per il ritiro», dice la Ds Silvana Pisa, senatrice pacifista che ha sempre votato contro l’Afghanistan. E’ successo già otto volte e non è detto che Verdi, Prc e Pdci non suonino la nona. In tanti in questi giorni, sia alla camera che al senato, hanno avvisato che quel decreto, se resta com’era con Berlusconi, non lo voteranno.