In un articolo intitolato laconicamente “Debiti”, che apparve nel 1934 sulla “Riforma sociale”, Luigi Einaudi scrisse: “Non riesco a prendere sul serio chi si lamenta o parla di crisi e non discorre di debiti”. In effetti, la singolarità del dibattito di queste settimane è che si parla molto del debito pubblico e poco o niente di quelli privati. Parlarne insieme può invece essere utile, anche se forse non facile.
C’è una semplicissima relazione che governa l’andamento di ogni indebitamento, al punto che, entro certi limiti, possiamo ritenerla comune sia al debito privato che a quello pubblico: un debito è “sostenibile” quando il tasso dell’interesse che il debitore paga su di esso è inferiore o uguale al tasso di crescita del proprio reddito. Nel caso del debito privato, ciò equivale a dire che l’imprenditore deve percepire un flusso di profitti almeno pari agli interessi che paga alle banche; nel caso del debito pubblico, invece, la questione è più complicata, ma – per i limitati fini di questo discorso – possiamo avvalerci di un suggerimento di Paolo Sylos Labini e semplificarla dicendo che il saggio dell’interesse sui titoli pubblici dev’essere inferiore (o a tutto concedere uguale) al tasso di crescita nominale del pil.
Il capitalismo, da quando esiste, si fonda sui debiti: nessun processo di accumulazione è concepibile senza debiti, perché l’autofinanziamento nel suo complesso è insufficiente e comunque non riguarda tutte le imprese. Fintanto che l’impresa va bene, il debito non è un problema: i profitti consentono di ripagarlo. Ma il debito è comunque rischioso, perché – a parità di ogni altra condizione – quanto più elevato è il suo ammontare, tanto maggiore sarà il flusso di profitti che l’impresa dovrà generare per farvi fronte.
Il “capitalismo senza capitali” non è dunque una peculiarità che appartiene al passato (o, come suggerirebbe la vicenda Telecom, al presente) del nostro sistema industriale: non c’è sistema imprenditoriale privato che non dia luogo ad un “capitalismo senza capitali”. Quel che può cambiare è se le imprese vanno a chiedere i capitali in banca, accendendo prestiti, o in Borsa, emettendo azioni o obbligazioni; non è una differenza da poco, ma non è neppure abissale.
Il capitalismo italiano appartiene storicamente alla prima variante, sebbene – specie grazie alla Cirio e alla Parmalat – abbia recentemente sperimentato anche la seconda. Da sempre il controllo della grande industria privata italiana si è basato su un’esigua quantità di capitali messi a rischio dai controllanti e su molti debiti contratti con le banche, col risultato che le periodiche riorganizzazioni dovute alla necessità di fronteggiare l’indebitamento hanno quasi sempre fatto premio su piani di sviluppo industriale capaci di conferire alle imprese lo spessore per reggere la competizione con l’estero.
Questa tendenza si è accentuata da quando, alla fine del 1992, si è avviata la svendita delle partecipazioni statali. Da allora, infatti, abbiamo assistito alla corsa di molti imprenditori (incautamente appellati “coraggiosi”) a far debiti per acquistare e/o scalare aziende pubbliche operanti in settori diversi da quelli di loro appartenenza e spesso incorporanti laute rendite, salvo dopo qualche anno scoprire che i flussi di cassa non erano sufficienti a ripagare i debiti contratti e risolversi a chiudere bottega (licenziando, è bene non dimenticarlo, i lavoratori che vi erano occupati).
Sarebbe erroneo, d’altra parte, credere che le ragioni della scomparsa dell’Italia industriale vadano ricercate soltanto nei (molti) vizi di una classe imprenditoriale a cui non sono bastati tre lustri di alti profitti e bassi salari per risolvere il nodo della bassa specializzazione produttiva in cui ci avevano precipitato anni e anni di svalutazioni competitive e stolidi inni alle meraviglie dei distretti industriali. E’ vero che il morso della concorrenza estera induce gli imprenditori nostrani a operazioni finanziarie volte a salvare dalla voragine dell’indebitamento i (pochi) capitali rischiati personalmente, piuttosto che a combattere i rivali con l’innovazione di prodotto, ma è pur vero che, quando l’economia non tira (e negli ultimi anni ha fatto proprio schifo), il pagamento degli interessi e la restituzione dei prestiti diventano problemi gravi: le imprese contraggono debiti solo per pagare quelli in scadenza, la domanda effettiva si riduce e l’economia precipita nella deflazione.
Non è una novità, né per l’Italia né per il mondo industrializzato: ne parlava già Einaudi nel suo articolo del 1934, guardando tutto sommato con favore ai salvataggi in quel tempo promossi dall’Imi e dall’Iri, esattamente come noi, a prescindere dallo scandalo delle intercettazioni, guardavamo e guardiamo con favore al progetto di ripubblicizzazione di Telecom (e non solo di Telecom), di cui presto discorrerà il Parlamento.
Privatizzazione dei guadagni con pubblicizzazione delle perdite? Se è il “Sole-24 Ore” ad ammonircene, sia pure per bocca di uno studioso di vaglia come Giangiacomo Nardozzi, dobbiamo diffidare. La ragione è molto semplice: il debito delle imprese lo pagano sempre i lavoratori, sotto forma di minori salari (e maggiori prezzi); gli interessi costituiscono un prelievo sul prodotto netto e per l’imprenditore non c’è modo di mantenere intatta la propria quota di sovrappiù se non rivalendosi sul proprio antagonista di classe. La domanda da fare è dunque un’altra: è meglio un debito privato o un debito pubblico?
Anche se ci limitassimo a considerare il costo del servizio del debito la risposta verrebbe giù obbligata: a parità di durata del prestito, il tasso d’interesse che lo stato italiano paga sui titoli del debito pubblico è di gran lunga inferiore a quello pagato da Telecom alle banche sue creditrici. Ma il vero punto è un altro. Da quella semplice relazione che governa la sostenibilità nel tempo del debito pubblico, possiamo desumere che la variabile rilevante è la crescita del reddito, non l’ammontare del debito: perfino nel caso che il tasso di crescita (nominale) del pil fosse pari al tasso dell’interesse pagato sui titoli pubblici potremmo mantenere costante un rapporto fra debito e pil di qualunque ammontare iniziale, semplicemente rispettando il vincolo dell’avanzo primario nullo. Di conseguenza, se consideriamo che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento (specie se in ricerca e formazione) può favorire la crescita del reddito nazionale, dobbiamo concludere che il debito pubblico è sempre preferibile a un debito privato: per l’impresa privata una buona performance dell’economia è un caso, per lo stato un fine.
Non sono conclusioni solo in punta di logica: la storia conferma. All’origine del “miracolo economico” degli anni Cinquanta e Sessanta c’è l’Iri e una legge bancaria che imponeva drastici limiti alla libertà di movimento dei capitali: fu il loro combinato disposto a consentire alla tecnocrazia pubblica (Beneduce e Menichella, Giordani e Sinigaglia, Vanoni e Saraceno) di raccordare direttamente risparmio privato, debito pubblico e investimenti industriali, in modo da finanziare il trasferimento di tecnologie avanzate dall’estero, creare una solida base industriale nelle produzioni mancanti o arretrate (che allora erano l’energia, la chimica, la metallurgia e la meccanica) e accordare priorità all’eccellenza tecnica piuttosto che alla redditività monetaria dell’investimento. E fu solo dopo che l’impresa pubblica aveva costruito la siderurgia a ciclo integrale per fornire lamiere a basso costo, una rete autostradale seconda solo a quella tedesca e una gigantesca rete di distribuzione per approntare a prezzi modici il gas alle imprese e la benzina ai privati che l’industria privata poté cimentarsi nel compito – tutto sommato non difficilissimo – di fare automobili e motocicli, frigoriferi e lavatrici.
Che dalla metà degli anni Settanta l’impresa pubblica abbia dato pessima prova di sé è un fatto dal quale non si può ricavare alcuna teoria: il mondo industrializzato è pieno di imprese pubbliche efficienti. Se dunque sia lecito usare la Cassa Depositi e Prestiti per coltivare istanze “stataliste” o “dirigiste” è questione di fatto, per rispondere alla quale bisognerebbe prima chiedersi: il nostro sistema industriale è oggi più forte o più debole di quanto non fosse nel 1992? E’ possibile che un sistema imprenditoriale oberato dai debiti possa permettersi il lusso di fare ricerca e innovazione? E’ possibile “governare il capitalismo” senza un potere reale dello stato come soggetto di interessi collettivi? Ed è possibile governare tout court con un palinsesto di politica economica come quello fissato a Maastricht?
La prima domanda l’ha posta Rino Formica sul “Riformista”, la terza Giuseppe De Rita su “Repubblica”, la seconda e la quarta – si parva licet – le avanza chi scrive. Risposte non ne attendiamo, anche perché le conosciamo già.