De Felice, l’Italia cerchiobottista si è ritrovata nel suo pensiero

L’ossessione mediatica intorno alle tesi e alla persona stessa di Renzo De Felice sembra essersi attenuata e, forse, può ritenersi in via di esaurimento. Coloro che l’hanno promossa e alimentata, in particolare il Corriere della Sera sotto la direzione di Paolo Mieli, mi sembra che non riescano più a trarci ispirazione per la loro ideologia politica volta a ridisegnare la lettura della storia italiana in chiave di condivisione “cerchiobottista”. D’altro canto appare evidente come anche la polemica della storiografia e della cultura politica di sinistra si sia smorzata e abbia compreso che le interpretazioni e le “categorie” utilizzate da De Felice sul tema del fascismo storico non reggono la prosecuzione di una discussione di merito intorno ai più attuali nodi della storia dell’Italia repubblicana.
Sta forse maturando una stagione diversa nella quale la figura e le idee di Renzo De Felice cessano di essere bandiere e si ricollocano nella loro più propria dimensione accademica. Qui esse acquistano un profilo sicuramente importante nella maturazione di una storiografia contemporaneista pur perdendo ogni indebito carattere di centralità del rinnovamento degli studi, soprattutto nella cruciale questione del rapporto tra lettura storica, impegno politico e libertà etica. Non è mia intenzione in questa sede annoiare i lettori con un’analisi del significato che la ricostruzione del fascismo di De Felice assume nell’ambito degli studi accademici.

Basti tuttavia ricordare che è stato suo indiscusso merito quello di aver creato qualcosa di simile ad una “scuola” che ha prodotto almeno un paio di generazioni di valenti seppur diseguali studiosi che, proseguendo sulle sue tracce metodologiche e tematiche, hanno indubbiamente contribuito a consolidare la discussione sulle vicende assai controverse dell’inserimento dell’Italia, sullo scorso del Novecento, nel quadro della nuova modernità sociale e politica che sconvolge i principali paesi europei, alterandone i lineamenti costitutivi, le relazioni internazionali, le ideologie e i valori di riferimento. Vorrei limitarmi ad alcune riflessioni che, dopo il diradarsi di quell’ossessione mediatica, mi sembra opportuno riproporre, giacché quella lunga stagione di uso pubblico di De Felice ha accompagnato e spesso condizionato la più ampia sfera della lotta politica, durante la fase più critica e incerta della recente storia dell’Italia repubblicana. Il dato più significativo che emerge è sicuramente la collocazione delle tesi defeliciane nel quadro degli strumenti di contrasto della ideologia antifascista e più a fondo dei soggetti politici e sociali e dei valori che in essa si condensavano. E’ stato chiamato revisionismo, in realtà era semplicemente e malauguratamente “antiantifascismo” e anticomunismo, cioè una estrema volgarizzazione e semplificazione di una complessa e a volte acerba e non pienamente padroneggiata opera di rilettura storica del fascismo dalle sue lontane e confuse origini, alla sua conclusione catastrofica come regime che travolge nella guerra e nella sconfitta militare l’intero paese. In realtà quando De Felice pubblica il suo primo volume su Mussolini, alla metà degli anni Sessanta e ancora per i successivi due volumi, il tema di fondo rimane quello del rapporto tra le origini e i caratteri del fascismo e la storia nazionale, tra un movimento eversivo e violento e le fragili istituzioni liberali e monarchiche, incapaci di fronteggiarlo e insieme ben presto conniventi.

Dunque si inseriva nel quadro della riflessione sul profilo dell’Italia unitaria che vedeva impegnata l’insieme della migliore cultura da quella storica a quella economica e giuridica alle nascenti scienze sociali, politologiche e istituzionaliste. Viceversa alla conclusione del percorso ci si ritrova di fronte ad una discussione che ha al suo centro i limiti e i “vizi” dell’antifascismo e dell’Italia democratica, mentre il fascismo storico evapora dalla discussione e dalle valutazioni. La storia nazionale (qui l’ispirazione è fornita dal cinismo immorale di Montanelli) si riduce all’opaca vicenda di un contenitore generico, entro cui si muovono contrapposte minoranze violente e totalitarie, tenute insieme da una massa amorfa e grigia nella quale, per paradosso, si fa risiedere la virtù della moderazione, dell’equilibrio e in sintesi delle stesse libertà democratiche. Questa brutale torsione, questa drastica e illiberale riduzione del tema di fondo, condotta con pervicace determinazione da un insieme di componenti politiche, culturali, editoriali e giornalistiche, mi sembra abbia alla fine prodotto e accompagnato un processo di autentico impoverimento e forse di vera e propria mistificazione delle vicende e dei protagonisti dell’Italia contemporanea. La pressione sull’antifascismo e sulla cultura di formazione comunista ha provocato non una revisione critica dei principali nodi politici e storici con cui queste forze andavano rileggendo se stesse e la storia nazionale, quanto una inopinata, progressiva, inarrestabile resa incondizionata, culminata con il capovolgimento della agenda dell’Italia contemporanea: l’antifascismo e la democrazia repubblicana sintesi e responsabili dell’immaturità nazionale e del difficile collegamento con i processi di modernizzazione dell’Occidente. Il significato doloso di questa operazione, naturalmente, risiede nell’aver tolto dalla riflessione e dal giudizio tanto il fascismo storico che l’insieme delle componenti politiche, culturali e sociali della destra italiana, cioè il nocciolo duro della classe dirigente. Questo proprio durante gli anni in cui queste forze, alleggerite dalle loro responsabilità e protette dal polverone revisionista, assumevano crescenti funzioni e poteri nella vita nazionale e davano luogo ad inedite formazioni politiche che riproponevano in Europa lo sciagurato stereotipo del “nuovismo” politico ideologico italiano, già sperimentato negli anni Venti. Vorremmo chiedere, sommessamente, a costoro se si sono resi conto che aver ispirato una simile operazione politico intellettuale, aver cioè tolto dalla analisi e dalla discussione pubblica il tema dei caratteri storici delle forze della destra, di cui il fascismo fu espressione organica, e dei suoi rapporti con l’insieme della classe dirigente nazionale, non solo le ha impedito di comprendere il decennio berlusconiano, ma soprattutto le ha poste oggi disarmate di fronte alle evidenti inadeguatezze dell’insieme delle classi dirigenti. Il cerchiobottismo come approdo della vulgata defeliciana rischia di ridurre i presunti costruttori di un paese normale e “inglese” in un insieme di grilli parlanti, tanto nella versione terzista del Corriere che in quella “pedagogica” della Repubblica, che evocano normalità politiche (partito democratico più partito unico della destra) e scatti di reni verso la modernità (Montezemolo, più Draghi uguale manifesto della modernità!!) che appaiono a dir poco penosamente retorici. Che per lo meno questa volta si assumano fino in fondo la responsabilità del disegno che hanno costruito negli ultimi due decenni e non si inventino un nuovo De Felice per rilegittimarsi.