Resterà un merito di Silvia Pegoraro – e nessuno glielo potrà mai togliere – quello di aver ideato e curato una mostra di quelle imperdibili. “La famiglia de Chirico. I geni della pittura” si intitola l’evento che riunisce i due fratelli, Giorgio De Chirico e Andrea, il quale – forse per omaggio ad Albert Savine – decise di chiamarsi Alberto Savinio, insieme al figlio di quest’ultimo, Ruggero.
L’unica cosa che non si capisce di questa mostra è perché non sia stata realizzata prima. Ma tant’è, nel mondo della ipercomunicazione mediatica si dicono e si ripetono tante inutilità senza che si avverta il bisogno (qualche volta almeno) di discernere fra necessario e superfluo.
La curatrice se ne è infischiata delle consuetudini postmoderne e delle inerzie, riuscendo, con mezzi – c’è da ritenere – non eccezionali, a portare a compimento un’impresa di grande rilievo. La mostra, supervisionata dalla Fondazione De Chirico, trova il suo prezioso alloggio nel Museo Michetti di Francavilla a Mare e gode del sostegno, oltre che della città, anche della provincia di Chieti e della Regione Abruzzo.
In calendario sino al 24 settembre, l’evento è di quelli da sostenere, oltre che per il valore che esprime in sé, anche per l’esempio che fornisce di una intrapresa pubblica a costo contenuto ma ad alto significato scientifico-culturale e politico, nel senso che più ci convince di “attinente all’etica della polis”.
Il sostantivo “polis” ci riconduce al cuore delle origini fisiche e “meta-fisiche” (è proprio il caso di dirlo) dei De Chirico. Entrambi infatti, Giorgio e Andrea-Alberto, nacquero in Grecia a Volos, rispettivamente, nel 1888 e nel 1891 (il primo scomparve a Roma nel 1978, il secondo nel 1952 nella stessa città).
Figli di un ingegnere ferroviario palermitano e di una nobildonna genovese, dopo l’infanzia, girarono l’Europa in largo e in lungo soggiornando in Germania, in Francia e in Italia. Come cittadini del mondo, dalle origini piantate nel cuore della cultura mediterranea, i temi del distacco e del ritorno, del viaggio, del cambiamento, della relatività, della molteplicità e del frammento saranno quelli che, rivisitati alla luce di uno studio profondo di Nietzsche e Schopenhauer, alimenteranno una visione antiprovinciale e antipositivistica, aperta alle suggestioni del mistero e dell’enigma.
La pittura di Ruggero Savinio (nato a Torino nel 1934), debitrice di quelle del grande zio e del grande padre ma anche cocciutamente autonoma, dimostra infatti – per dirla con Silvia Pegoraro – che «la demitologizzazione propria della modernità non comporta necessariamente una perdita dei simboli. Si osserva, al contrario, nel suo lavoro una risimbolizzazione cha passa attraverso l’invenzione di forme e spazi utopici, irreali, anche se spesso abbozzati dalla memoria (…).».
La genialità non è solo geneticamente determinata, evidentemente. Anche se il titolo della mostra gioca sottilmente sulle ragioni cromosomiche della vicinanza dei tre autori-parenti.
Lo scopo che si prefigge la selezione delle opere proposta, circa una sessantina, è proprio quello di indicare criticamente assonanze e diversità dei due fratelli in ordine alla grande questione della Metafisica, ai suoi rapporti con il Surrealismo e all’influenza sull’intera cultura figurativa europea, sino ad abbracciare una più ampia riflessione sul mito e sulle declinazioni che ha assunto nell’opera di Ruggero.
La rivoluzione estetico-filosofica introdotta da De Chirico con l’“invenzione” della pittura metafisica è ovviamente al centro della mostra, non solo per la co-partecipazione al “misfatto” del fratello Savinio e per le influenze sul nipote Ruggero ma per il ruolo, fondamentale, avuto da essa nella storia dell’arte del ‘900.
E’ così che le architetture e i silenzi delle Piazze d’Italia, i manichini e tutto il repertorio dechirichiano sono chiamati, per il modo a-logico con cui gli oggetti e i personaggi sono accostati (è questa la novità assoluta), a svelare l’inquietudine dell’uomo moderno sorpreso dinnanzi alla consapevolezza della propria fragilità (“Interno metafisico” del 1925, “La malinconia di Arianna” del 1968-71). Una consapevolezza che rimarrà, accanto alla celebrazione di sé stesso – “genio perfettamente compreso”, come acutamente osserva in catalogo Ottaviano Del Turco – a rifornire di senso tutta la sua vasta produzione post-metafisica.
Alberto Savinio ebbe della pittura una idea rigorosa ma anche meno esclusiva di quella del fratello. Fu musicista e letterato. Fu uomo, molto più di De Chirico, politicamente disponibile alle influenze di regime. Ma anche più ironico e autoironico. Leggerezza, visionarietà, ardimento concettuale e formale furono sue prerogative (“Voilà mon rêve” del 1928, “L’isola dei giocattoli” del 1930). Tutto questo fece di lui un artista globale. Molto più di un “numero due”.
Di Ruggero Savinio si è detto. Di lui la mostra regala opere significative (“Studio per Narciso” del 1959, “Notturno” del 1995) che, fra le molte, almeno una qualità dimostrano in modo certo: la capacità di reggere il confronto con i suoi cari. Buon sangue non mente.