De André entra nelle università

I media si sono accorti che Fabrizio De André è diventato materia di studio. Per essere sinceri non è una notizia nuovissima. Da tempo nelle scuole primarie e secondarie le sue canzoni, complice l’intelligenza di insegnanti illuminati, sono un’occasione per approfondimenti letterari e, in qualche caso, per vere e proprie analisi della forma espressiva in parallelo con quella della società italiana. Meno recente è, invece, l’avvio di un vero e proprio corso su Fabrizio presso l’Università di Siena, la stessa dove ha sede un centro studi a lui dedicato. Il corso è attivo da un’annetto scarso e prevede, come per tutti i corsi che si rispettano, un esame finale. Bene, anzi benissimo. A chi ha conosciuto Fabrizio De André, però, non può sfuggire un dubbio. Chissà come l’avrebbe presa lui, così indifferente a qualunque aspetto gerarchico della vita l’idea di uno studente che affronta, teso, sudato e preoccupato, un esame destinato a pesare sul suo libretto universitario che ha per oggetto le sue canzoni, sui suoi scritti e le sue interviste? Si sa quel che pensava da vivo delle sperticate e lusinghiere notazioni che soprattutto negli anni Novanta avevano cominciato a piovere su di lui anche da parte dei settori più paludati e conservatori della cultura italiana. Ce lo ricordiamo accendere gli occhi d’ironia di fronte alle lodi, anche quando venivano da persone che lo amavano incondizionatamente e senza alcuna reticenza, come Fernanda Pivano che aveva dichiarato di considerarlo «il più grande poeta che l’Italia ha avuto negli ultimi 50 anni». Lui, serafico, rispondeva «Sono spaventato. Non molto, ma abbastanza. Sono abbastanza spaventato dall’eccesso di consensi, perché da ogni vertice di grazia si può prevedere che si scivolerà in disgrazia». Di fronte ai tentativi di santificarlo aveva radicalizzato l’ironia, trasformandola in un arma poderosa nella quotidiana battaglia contro l’adulazione. Forse oggi sorriderebbe all’idea che l’Università possa farne oggetto di studio, vivisezionarne la produzione artistica, indagare e catalogare i suoi appunti e analizzarne i brani ricchi d’umori e di sapori, poesie lievi che paiono scritte di getto su un foglio di carta appoggiato sul tavolo di una taverna o su una panca ai bordi di una strada. Certamente non sfuggirebbe alla sua capacità critica il paradosso della scoperta della complessità poetica e letteraria della sua opera da parte di quello stesso mondo accademico che lo guardava con sufficienza anni fa. Possiamo immaginarlo curioso di vedere come va a finire la storia. O forse alzerebbe le spalle come se la cosa non lo riguardasse come ha fatto per tanto tempo con quei critici che, senza mai capirlo davvero, l’hanno trattato come uno strano fenomeno da baraccone in grado di salvare, solo per il fatto d’esistere, la canzone italiana dalla mediocrità e dalle colonizzazioni. Il dubbio è sempre stato la sua forza vitale, quella che gli ha consentito di non farsi mai imprigionare dai clichè. Di fronte a chi con aria complice ma illuminata gli ricordava il suo essere scomodo, evitava di atteggiarsi a incompreso, negava la sua presunta scomodità e, per chiudere il discorso, finiva per rispondere di preferire la scomodità all’inutilità. Per la verità considerava un’esagerazione anche l’idea di essere considerato un poeta. L’intera sua opera nasce e cresce con la musica, chiamata a dare forza alle parole e arricchirle d’umori. Decontestualizzarlo a semplice compilatore di parole, sia pur meravigliosamente stese, appare un po’ riduttivo, ma non facciamocene un cruccio. Lui per primo cercherebbe di guardare con indulgenza alle mosse di chi tenta di utilizzarlo come un grimaldello per svecchiare la cultura italiana, così incline a lasciarsi rassicurare dal formalismo tradizionalista soprattutto quando si occupa delle variegate strutture della narrazione letteraria. E’ la stessa indulgenza che lo portava a raccontare «Con l’andare del tempo ho scoperto che gli uomini sono, in fondo, dei meccanismi così complessi che spesso agiscono indipendentemente dalla loro volontà. Il risultato è che, in fondo, c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore». Anche se poi, di fronte al rischio di essere scambiato per un profeta o un filosofo, aggiungeva «Per la verità ci sarebbe anche un’altra spiegazione: che io mi stia semplicemente rincoglionendoÉ». Indulgenza a parte, l’ingresso di De André tra gli argomenti di studio degli studenti di Lettere segna comunque un’inversione di tendenza positiva in un paese come quello in cui abitiamo, che ha guardato alla canzone con snobismo e malcelata vergogna e l’ha considerata più come un vizio da cui emendarsi che un patrimonio culturale da studiare e tramandare. De André, per la sua capacità di essere insieme popolare e colto, rompe lo schema e rende possibile l’apertura di una prima crepa nelle certezze della cultura ufficiale. Speriamo sia il primo passo di un approccio diverso alla storia della canzone e non una fortunata combinazione nata dalla luminosità del personaggio.