Lo scontro fra Italia e Stati uniti è destinato a durare, nonostante l’apparente happy end dell’altra sera, un comunicato del Dipartimento di stato in cui si definiva «colloquio costruttivo» l’ultima telefonata tra il segretario di stato Condoleezza Rice e il ministro degli esteri Massimo D’Alema. D’Alema sembra esserne cosciente. Ieri mattina, parlando all’Auditorium di Roma in occasione delle celebrazioni dei cinquant’anni dell’Europa unita, ha detto chiaro che «gli ultimi anni dimostrano che non si può affidare ad una sola potenza, anche se grande come gli Usa, la sicurezza mondiale». Nulla di rivoluzionario ma sintomatico della distanza che oggi corre tra gli attuali governi alleati. E se nella stessa occasione il presidente Giorgio Napolitano ha detto che «non c’è nessuna grave incomprensione tra Unione Europa e Usa», il raffreddamento delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico è un fatto.
D’Alema, si ragiona in ambienti diplomatici, non sembra essere più percepito a Washington come l’uomo dei Balcani, il politico italiano che da presidente del consiglio approvò i bombardamenti della Nato in Jugoslavia e il cambio di stagione dell’Alleanza atlantica giusto nel quarantennio della Nato, celebrato a Washington nel 1999. Inoltre, il governo Prodi è molto debole e questo può facilitare sponde con l’opposizione berlusconiana e perfino iniziative «irrituali», come la lettera dell’ambasciatore americano a Roma firmata da altri alleati Nato in cui si dettavano all’Italia le regole d’ingaggio politico in Afghanistan.
L’amministrazione Bush può ambire ad avere un posto a sé nella storia diplomatica statunitense per avere azzerato la tradizionale divisione in politica estera tra falchi e colombe, a favore dei primi. Al Dipartimento di stato l’«Italy desk» non esiste più, tutti dentro quello europeo. Lo scontro interno è limitato ai democratici che anche ieri – in maggioranza nelle due camere – hanno votato per fissare addirittura il ritiro delle truppe dall’Iraq al 31 agosto 2008. L’Italia che tratta pubblicamente per liberare i suoi sequestrati è un cattivo maestro per la Casa Bianca, nel momento in cui Bush gioca le sue ultime carte elettorali in Afghanistan, dove pensa la partita non ancora persa del tutto come in Iraq. L’Italia che si rifiuta di spostare truppe lì dove si combatte – al pari di Spagna e Germania – è solo un ostacolo da superare. Il prossimo 26 aprile, a Oslo, a D’Alema e agli altri ministri degli esteri della Nato sarà chiesto nuovamente questo passo, sempre che il nostro governo superi lo scoglio del voto di martedì in senato o che in Afghanistan la situazione non precipiti ulteriormente. Di sicuro, agli americani non basteranno le ultime concessioni italiane in fatto di nuovi armamenti e uomini, se non per una cordiale telefonata.