La Casa Bianca e il Pentagono apparivano un po’ come pugili suonati, ieri, a ventiquattro ore dalla sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato illegali le commissioni militari, cioè i tribunali speciali escogitati per processare i «combattenti nemici» senza i normali diritti riconosciuti agli imputati. La Casa Bianca dice che sta ancora «studiando» le settanta pagine della sentenza e lo stesso ha detto il Pentagono, il quale non ha comunque mancato di fare la sua brava precisazione. Di Guantanamo, ha detto il suo portavoce Bryan Whitman, «c’è bisogno» perché lì «siamo in grado di raccogliere informazioni sulla rete dei terroristi e sulla loro attività». Una specie di eleogio della tortura, quello di Whitman, del quale oltre tutto sfugge il senso. Come «estrarre» informazioni utili da gente che si trova in quella prigione da oltre quattro anni?
Il governo parla poco, dunque, ma non così il Congresso, dove i leader repubblicani si sono subito mostrati attivissimi nel cercare il modo di aggirare la sentenza della Corte Suprema e «dare al presidente ciò che vuole», secondo l’espressione di un senatore protetto dall’anonimato.
Il leader dei senatori repubblicani, Bill Frist, ha detto che approfitterà della vacanza legata al prossimo 4 di luglio, la festa nazionale americana, per preparare una proposta di legge che autorizzi le commissioni militari «indicando le appropriate procedure». L’idea di base sembra quella di «migliorare» le regole delle commissioni militari quel tanto che basta per togliere loro gli aspetti più smaccatamente ingiusti che si sono beccati la condanna della Corte Suprema, come per esempio il fatto che gli imputati non possano difendersi perché l’accusa rivolta contro di loro è segreta, o che non abbia nessuna importanza il fatto che le «ammissioni» degli imputati siano state estorte con la tortura, o ancora l’impossibilità dell’imputato di parlare con il proprio avvocato senza essere ascoltati, o quella di non poter contraddire un testimone a carico, né convocare un testimone a favore.
Arlen Specter, presidente della commissione Giustizia del Senato, una sua proposta l’ha già presentata senza aspettare il 4 di luglio. Prevede di autorizzare esplicitamente le commissioni militari, non spiega se e cosa dovrà cambiare nel loro modo di operare ma in compenso propone una revisione semantica: i detenuti di Guantanamo non dovrebbero più essere chiamati «combattenti nemici», un termine troppo vago, ma piuttosto dovrebbero essere definiti invece con il chiarissimo «nemici senza privilegi», talmente al di là del bene e del male che sembra quasi la provocazione di un garantista.
Insomma quella che sembra prospettarsi è una dura controffensiva destinata ad aprire una sorta di «conflitto permanente» fra amministrazione e Corte Suprema ma destinata anche a entrare in pieno nella campagna elettorale per il voto del 7 novembre, dove la maggioranza repubblicana alla Camera, al Senato o a tutti e due potrebbe essere rovesciata. In pratica, infatti, gli elettori si troveranno a dover dire attraverso il loro voto non solo se vogliono o no che la guerra in Iraq continui all’infinito, se sono contenti o no di pagare più tasse dei ricchi, se vogliono o no continuare a distruggere l’ambiente, ma anche se vogliono annullare questo guizzo di elementare decenza democratica che la Corte Suprema ha appena restituito al loro Paese.