Ogni volta che l’attualità ci costringe a mettere a fuoco i problemi più o meno impliciti alla necessità di trattare con chi ha in suo potere le sorti di persone, luoghi di importanza geopoliticamente cruciale, risorse a noi indispensabili, le opzioni che vengono messe sul tappeto si limitano a esplorare questioni circoscritte alle opportunità politiche contingenti, nella totale inconsapevolezza – si direbbe – dello sfondo teorico di cui pure si alimenta un simile dibattito. Secondo alcuni, quale che sia la posta in gioco, il principio non sarebbe negoziabile: essendo l’unità di misura di ogni valore, e quindi anche del valore della posta, non può rientrare nell’ambito delle cose che possono essere oggetto di concessione. La sua trascendenza ne sarebbe minacciata. Di fatto, nel momento stesso in cui si accettasse di negoziare, l’avversario avrebbe già vinto.
Dalla verità alla doxa
Un intrattabile con il quale si è trattato, infatti, non è più un intrattabile. Uno Stato, ad esempio, non sarebbe più uno Stato se trattasse; e, in effetti, la storia ci mostra che uno Stato è costretto a trattare quando rapporti di forza mutati ne mettono in dubbio l’esistenza. Nella trattativa vedrebbe compromessa la sua definizione, il suo essere. Accadrebbe allo Stato quello che gli antichi filosofi paventano per la Verità con la maiuscola. Fattasi conoscenza umana, entrata in relazione con un pensiero che la pensa, qui e ora, la verità diventa infatti relativa, si sfigura in congettura rivedibile (doxa) e, quindi, infondata. Non si può fare di quanto è per definizione sciolto, irrelato (assoluto), un oggetto di scambio.
A quanto si pone come assoluto spetterebbe solo l’alternativa secca tra essere e non essere. La trattativa lo farebbe vacillare costringendolo al rischio del divenire e il divenire, per definizione, è un non essere più quanto si era. I fautori della non negoziabilità dei valori ultimi si fanno forti di questa logica impeccabile. Li si ritrova, oggi, sui più diversi fronti politici: dagli arcigni difensori della morale cattolica agli intransigenti campioni della «dignità nazionale» contro ogni cedimento ai «terroristi». Appartengono, però, a questa categoria anche coloro che, costi quel che costi, in nome dell’assoluto della propria coscienza, si chiamano aristocraticamente fuori dalle «bassezze» di una politica ridotta a mercato.
Tra fatti e principi
Non è facile scalzare questa logica che ha dalla sua una pretesa di purezza. Non è sufficiente esibire il fatto che, comunque, ad ogni latitudine si tratta con estrema spregiudicatezza e che, ad esempio, coloro che rimproverano il governo italiano per la sua arrendevolezza si sono comportati in passato nello stesso modo. Né vale ricordare quanto ipocrite siano le pratiche effettive dei fautori della non negoziabilità dei valori. Si pensi, ad esempio, alla palude morale nella quale deve scendere chi vuole che il suo matrimonio, un assoluto, sia dichiarato nullo, cioè mai stato, dalla Sacra Rota. I fatti non hanno sufficiente forza per contestare i principi. Come ebbe a dire La Rochefoucauld, l’ipocrisia, è un indiretto omaggio alla virtù. La denuncia dell’atteggiamento ipocrita di chi comunque tratta sottobanco si limiterebbe perciò a confermare obliquamente la non negoziabilità del valore e l’indegnità del patteggiamento.
Bisognerebbe piuttosto riscattare la trattativa, inscriverla nella vita dell’assoluto (del valore), non nella forma di un cedimento o di un compromesso che ne intaccherrebbe la purezza, ma come manifestazione di quella stessa purezza. Bisognerebbe provare a pensare il valore come ciò che non cessa mai di essere negoziabile e che, proprio in quanto infinitamente negoziabile, è dotato di una trascendenza di principio: un intrattatabile che tuttavia non cessa mai di essere trattato e che non ha consistenza alcuna al di fuori della sua negoziazione; un assoluto che necessita del relativo, del passo fuori di sé, per essere quell’assoluto che è. Un compito difficilissimo in un tempo sfrenatamente ideologico come il nostro.
Che altro è infatti l’ideologia, se non la deduzione del reale, di tutto il reale, dalla semplicità di una idea? La deduzione è quel processo in forza del quale le conclusione sono ricavate analiticamente dalle premesse, le quali hanno il pregio della evidenza, sono cioè principi sottratti ad ogni possibile negoziazione. Basta considerarle con la dovuta attenzione per ritrovarvi il teorema completamente svolto. Il mondo sarebbe già tutto contenuto nel suo principio e andrebbe ricavato da quello con ferrea consequenzialità. Ciò che resiste a questa assimilazione all’idea non ha dignità di esistenza. Sembra che sia ma non è. Gli ebrei per i nazisti erano apparenza senza sostanza. L’idea (la purezza della razza) non li contemplava tra le sue conseguenze logiche. Il loro sterminio era un impercettibile fruscio del vento. Il nulla infatti tornava al nulla senza far rumore. E lo stesso vale per la considerazione che Stalin aveva delle classi oggettivamente controrivoluzionarie. La deduzione è l’opposto della trattativa. L’idea non viene a patti con il reale. Non si tratta con ciò che non è. Se l’idea riconoscesse che c’è un reale con cui trattare, il suo cristallo ne risulterebbe inquinato. Hannah Arendt ha mostrato come il totalitarismo sposasse la tesi della non negoziabilità del principio portandola alle sue estreme conclusioni. Non si spiegherebbe altrimenti la puntualità di quei treni che, a guerra quasi finita e persa, continuavano inflessibilmente a scaricare la loro merce umana nei campi di distruzione di massa.
La trattativa è invece un’arte vile, un’arte meccanica. Già nel suo etimo la parola rinvia al maneggiare, allo sporcarsi le mani, al tracciare dei solchi in una terra dura. La trattativa è una pratica materialistica che presuppone proprio quanto l’idealismo deve negare: fuori c’è un reale ruvido e irriducibile all’idea. C’è insomma dell’altro o degli altri con cui, volenti o nolenti, si devono fare i conti. È degno di nota che il vocabolario normalmente impiegato per descriverla sia un vocabolario implicante un giudizio di valore negativo. È il lessico con il quale ogni cultura fondata sulla divisione del lavoro stigmatizza chi ha a che fare con la fatica della materia. È il linguaggio della «decadenza» dell’idea, dello scadimento di una libertà, del venir meno di un dover essere. Alla trattativa ci si «rassegna». È una necessità che mette in scacco la mia libertà, che rivela tutta la mia finitezza, che esibisce in modo crudo e senza possibilità di appello il mio essere proiettato in una situazione che sfugge al mio controllo. Trattare vuol dire «scendere» a patti. L’accordo trovato è presentato come un punto d’arresto in una discesa verso il basso – ogni trattativa è al ribasso – un «basso» che ha una valenza immediatamente morale. Anche per questo, e non solo per le ovvie ragioni di opportunità, necessita del cono d’ombra del segreto. È allergica alla luce e infatti, per mandarla a monte, è sufficiente svelarla. Sul mediatore ricade infine il peso di questa considerazione negativa. Essendosi sporcato le mani, avendo trattato con un fuori impuro, egli si ritrova in qualche modo contaminato. Il sospetto, anche a trattativa felicemente risolta, continuerà ad aleggiare su di lui. Per questo tutte le grandi figure storiche di negoziatori, in primis, naturalmente, il principe di Talleyrand (il cui testamento si dice fosse «un atto diplomatico con Domeneddio»), sono sempre circonfuse da una luce ambigua, vagamente demoniaca. Non esseri malvagi, ma esseri che hanno conosciuto la necessità del male, magari nella forma debole del «male minore», e che quindi hanno visto definitivamente compromessa la loro purezza morale.
Ma proprio quanto l’idealismo rinfaccia alla trattativa ne costituisce la virtù. È nella sua penombra che avviene infatti l’incontro con l’altro in quanto altro. Nella guerra l’altro lo si uccide. Nella pace l’altro lo si incontra nella forma dell’alter ego, vale a dire come altro me stesso, speculare a me. Le moderne filosofie dell’intersoggettività (Habermas, Apel) hanno ampiamente descritto questa comunità ideale (e per così dire «parlamentare») con l’altro che si dà nella parola e attraverso la parola. Dove una comunicazione è in corso, dove si ricerca un’intesa razionale fondata sul consenso, ebbene là è in gestazione una comunità ideale di altri che si riconoscono reciprocamente uguali. Del vero altro, quello «cattivo» che non si lascia ridurre ad alcuna misura comune, quello che si sottrae a questa reciprocità speculare, non c’è però qui traccia.
Ebbene, la trattativa rappresenta un’occasione di incontro con questa alterità radicale. In una trattativa non si sceglie l’interlocutore. Anzi, si tratta solo con il nemico. È una verità sacrosanta, mai abbastanza ribadita. Si parla con il nemico in vista di un’intesa circa qualcosa di determinato (la vita di un ostaggio, ad esempio). Questa parola non presuppone la specularità dei parlanti, la loro simmetria, la loro comune vocazione all’universale, ma la loro eterogeneità. Nessuna comunità ideale si delinea all’orizzonte. Il nemico con cui si è costretti a trattare (la trattativa è una relazione coatta) non cessa momentaneamente di essere nemico. Gli interessi in ballo sono inconciliabili in linea di principio e resteranno tali anche in caso di una soluzione felice del negoziato. La trattativa si pone, sfidando le leggi della logica, come ambito nel quale – come ha scritto Shakespeare a proposito del denaro – le cose impossibili infine si baciano. E lo fanno restando impossibili, permanendo nella loro incomunicabilità. Una tale conciliazione dell’inconciliabile che resta inconciliabile è la paradossale sintesi implicata in ogni trattativa. Il mediatore viene allora effettivamente investito da una luce demoniaca, ma non perché si sia sporcato le mani con le bassure dello scambio, ma perché si è fatto ponte tra mondi, interessi, bisogni che restano senza rapporto tra loro. Nella mitologia, come è noto, il demone è proprio il mediatore tra dimensioni incommensurabili.
Il paradosso della giustizia
La posta in gioco nella trattativa è l’impossibile. È la costituzione di un luogo comune senza comunità presupposta o a venire. Jacques Derrida, negli ultimi anni della sua vita, si è lungamente intrattenuto sul paradosso della giustizia. Il tema è quello classico, seppur declinato nella non facile prosa derridiana, del rapporto tra l’assoluto e il relativo. Da un lato il principio come tale non negoziabile, dall’altro la politica come ambito inevitabile della negoziazione. Che rapporto esiste, si chiedeva Derrida, tra una legge assoluta e cioè «la legge dell’ospitalità, la legge incondizionale dell’ospitalità illimitata…e dall’altra le leggi dell’ospitalità, questi diritti e questi doveri, sempre condizionati e condizionali»? Per non trasformarsi in fumosa astrazione, l’assoluto dell’ospitalità illimitata («ospitalità incondizionata, offerta a priori a ogni altro, a ogni arrivante, chiunque sia») deve venire a patti con il suo contrario. Deve mediarsi con un reale le cui esigenze sono opposte (frontiere, entrate contingentate e così via).
Solo facendo un bagno di realismo l’imperativo dell’ospitalità potrà trovare infatti applicazione. D’altronde, una politica che, per un eccesso di realismo, perdesse di vista il riferimento all’impossibile, accontentandosi di essere semplice «arte del possibile», perderebbe, secondo Derrida, anche «il riferimento alla giustizia». I due mondi – l’assoluto e il relativo – sono incomunicabili eppure solo dal loro impossibile incontro, qui e ora, dipende la possibilità di un agire giusto.
La bellezza del compromesso
Il giusto è allora colui che è chiamato, dalla situazione data, a «fare l’impossibile». Nessuna fuga mistica è abbozzata in questa ingiunzione. Il giusto è il mediatore che si sporca le mani. Fare l’impossibile, continua infatti Derrida, vuol dire semplicemente negoziare. «Bisogna negoziare» in nome del non negoziabile, bisogna trattare «in nome dell’intrattabile», in nome di qualcosa che non sopporta transazione ma che non ha nemmeno sussistenza alcuna al di fuori di quella transazione sfinente. «Proprio la giustizia incalcolabile comanda di calcolare» conclude Derrida. E questo suo elogio della trattativa, come luogo in cui l’impossibile accade e la giustizia «localmente» appare, sembra ripetere quanto una volta Gandhi disse con semplicità: «Il mio amore per la verità assoluta mi ha insegnato la bellezza del compromesso».