Dalla prigione alla libertà (2)

Gli ultimi giorni Un’attesa infinita, fino a quel viaggio in automobile. Poi è arrivato Nicola Calipari
GIULIANA SGRENA
«Facciamo un video per chiedere a Berlusconi il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e poi ti lasciamo andare a casa». I miei sequestratori me l’avevano detto da subito, appena rapita all’uscita dall’università di An-Nahrein. Invece ho dovuto aspettare più di una settimana prima che si presentassero i «responsabili» del video promesso. Avevo paura, ma ero quasi contenta che succedesse qualcosa e soprattutto di incontrare qualcuno del gruppo dei sequestratori a un livello più alto: finalmente avrei potuto cercare di far valere le mie ragioni. E in effetti una discussione c’è stata. Si è presentato uno col volto coperto da una kefiah a scacchi rossi e bianchi. Aveva in mano un biglietto e ha cominciato a leggere: «Noi abbiamo il diritto di liberare il nostro paese. Come il Vietnam, l’Algeria…» a questo punto l’ho interrotto. «Certo che ne avete il diritto, ma lo venite a dire a me che mi sono sempre battuta contro la guerra e contro l’occupazione?». Allora, quello a volto coperto ha risposto: sappiamo benissimo chi sei però ci devi aiutare, devi fare un appello per il ritiro delle truppe a Berlusconi. La mia rabbia aumentava: «Se il ricatto è la mia vita in cambio del ritiro delle truppe potete uccidermi subito, perché non otterrete nulla. Berlusconi è un alleato di Bush, non vuole il ritiro e poi non accetterà mai questi condizionamenti. Al contrario, l’opinione pubblica in Italia è molto sensibile alla situazione irachena e la contrarietà alla presenza italiana in Iraq è molto diffusa, quindi dovete contare sul popolo italiano più che su Berlusconi». Altrimenti, «uccidetemi subito: è più facile uccidere una povera donna indifesa che andare a combattere i soldati Usa per strada», ho azzardato.
Quella libertà attesa trenta giorni
Dal video della disperazione a quello della liberazione. In mezzo, gli echi della solidarietà in Italia, le battaglie per poter fare una doccia, la paura e la speranza
Ero bendata, in attesa dentro un’automobile vuota. Ho aspettato mezz’ora, poi ancora dieci minuti. Ero terrorizzata. Poi, finalmente, si è aperta la porta: «Giuliana, sono Nicola, sei libera, libera»
GIULIANA SGRENA
Mi hanno detto che non mi avrebbero uccisa, ma senza convincermi: «Aiutaci solo a fare questo appello». Abbiamo discusso molto prima di girare questo video sulla necessità di rivolgersi al governo, al popolo italiano e alla famiglia. Insistevano molto sulla famiglia. Quando mi avevano presa mi avevano chiesto quanti anni avevo – 56 – se ero sposata – avevo risposto di sì anche se non sono sposata legalmente (ma il distinguo poteva risultare difficile da spiegare) e quanti anni aveva mio marito – 53. «Come, hai un marito più giovane? E quanti figli hai?» «Nessuno». «Nessuno!». Troppe incongruenze (per loro), forse volevano mettermi alla prova chiedendomi di rivolgermi a mio marito. Avevano una piccola videocamera che non sapevano usare bene. Il tutto mi sembrava molto improvvisato. Eravamo nella stanza dove mi hanno tenuto per tutti i trenta giorni. Mi hanno fatto indossare i miei vestiti, quelli che avevo al momento del sequestro. Avevo una maglia nera, non so perché nel video trasmesso dalle televisioni risultava verde. Mi hanno raccontato che in Italia sul colore dei miei abiti si è molto discusso, ci si voleva leggere chissà quale segnale. Ma era la mia vecchia felpa nera. Forse il cambiamento di colore è stato causato dal neon usato quando è saltata la luce.

Il primo video

Nessuno di loro sapeva l’italiano quindi mi hanno fatto scegliere tra francese o inglese. Ho scelto il francese. Nel momento in cui dovevo rivolgermi al mio compagno ho invocato Pier: mi hanno interrotto subito. «Devi dire mio marito!». «Ma si chiama Pier», ho cercato di ribattere. «Non importa». Ma dopo il per me insolito «mio marito», ho aggiunto Pier. A quel punto, quando ho iniziato a rivolgermi a lui, senza rendermene conto sono passata all’italiano. E in quello stesso momento mi ha assalito una grande emozione. L’emozione di parlare direttamente a lui. Ovviamente io contavo molto su Pier, noi due abbiamo passato una vita insieme, una storia d’amore ma anche di politica, sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvarmi. Ma temevo di responsabilizzarlo troppo. «Salvami tu», gli dicevo. E se poi finiva male? Capivo che gli stavo buttando addosso un peso enorme. Eppure non potevo fare altro in quell momento. Poi quando ho chiesto a uno dei miei guardiani se avesse visto il video trasmesso da al Jazeera mi ha risposto di no: «Il satellite non funziona e poi il video deve essere riuscito così male che penso non sia stato utilizzato», mi ha detto. «Meno male», mi sono consolata.

Pensavo proprio di aver sovraccaricato Pier di responsabilità. Non sapevo quale livello di drammaticità potesse avere il video, io non sapevo nemmeno che faccia avessi. Sono stata venti giorni senza potermi guardare allo specchio. Durante la registrazione, i sequestratori volevamo che io caricassi ancora di più i toni, che mi mostrassi terrorizzata, più di quanto lo fossi. A parte le forzature che mi imponevano, nel testo e nell’atteggiamento, le cose che ho detto nel video sono le cose che ho sempre sostenuto. Penso che chi lo ha visto e mi conosce abbia capito che ero molto presente, ero in qualche modo razionale. Non ero completamente nelle loro mani, manipolata fino in fondo. In genere non sono mai molto razionale e calcolatrice, invece in quel frangente mi sono scoperta meno emotiva del solito. L’emozione stava tutta in quelle lacrime.

Qualche giorno dopo, uno dei miei due guardiani, quello che era solitamente più «duro», è venuto a dirmi che era rimasto stupefatto di aver visto il mio nome sulla maglietta di Totti. Mentre l’altro passava pomeriggi interi ad ascoltare i versetti del Corano, questo preferiva le partite di calcio alla televisione e fin primi giorni del sequestro mi parlava dei giocatori italiani, mi faceva domande sulle squadre di calcio. Lui era un tifoso della Roma, Francesco Totti era il suo idolo e vedere Totti con il mio nome sulla maglia per lui era il massimo. Allora io scherzando gli ho detto: «Sai, io sono della Juve». E lui ha cominciato a sbeffeggiare Del Piero. Eppure questa storia è servita far capire ai miei sequestratori quanto fosse ampia la solidarietà nei miei confronti in Italia. Quando stavo lì io non avevo capito fino a che punto fosse stata alta la mobilitazione per la mia liberazione. Della manifestazione di Roma organizzata dal manifesto avevo avuto solo una mezza idea. Ancora oggi, ogni giorno scopro chi e come si è dato da fare per salvarmi la vita. E alla fine, prima di liberarmi, anche i miei rapitori mi hanno detto: «Abbiamo capito che tu sei molto apprezzata nel tuo paese. Scusaci per quello che ti abbiamo fatto».

Una doccia

I rapporti con i miei guardiani subivano alti e bassi, a volte erano più disponibili, in altre occasioni erano tesi e arroganti. A volte si impuntavano sulle cose più stupide, come quante volte andare in bagno. Se mi rivolgevo a uno di loro mentre ero nel corridoio mi sgridavano: «Una donna non deve parlare nel corridoio», dicevano. A volte invece, quando vedevano che stavo male, si davano da fare per trovare la medicina giusta. Se non mangiavo provavano a portarmi qualcos’altro. Devo confessare che a volte giocavo sul fatto che ero un povera donna, una donna debole. Era l’unico tasto sul quale potevo battere con loro. Affermazioni contro le quali ho lottato tutta la vita… ma non potevo fare altro.

C’è stato un momento in cui ho avuto bisogno dell’assistenza di una donna. L’ho detto loro ed effettivamente hanno fatto venire una donna che mi ha portato tutto quello di cui avevo bisogno. Negli stessi giorni ho spiegato che avevo molti dolori articolari e mi hanno fatto avere delle medicine. Per quattro, cinque giorni sono rimasta sempre a letto. Mi alzavo solo per andare in bagno, faceva freddo e quindi mi mettevo sempre la sciarpa in testa. Loro mi portavano da mangiare e andavano via. Alla fine della settimana mi sentivo lercia, dovevo assolutamente fare una doccia. Non era una cosa semplice. Con l’acqua fredda non l’avrei mai fatta, quindi bisognava aspettare che ci fosse l’energia elettrica almeno per due ore in modo da poter riscaldare l’acqua e che questo avvenisse a un’ora decente, non in piena notte. Avere i capelli bagnati, la cervicale, insomma i malanni che capitano a una certa età, non era il caso. Loro non capivano molto ma a volte cercavano di aiutarmi. Alla fine sono riuscita a fare la doccia. Poi sarebbe diventato un mio obiettivo realizzabile ogni quattro o cinque giorni.

Aria di trattativa

Quando mi hanno fatto consegnare l’orologio e mi hanno detto che doveva andare a Roma perché mio marito doveva riconoscerlo ho capito che la trattativa stava cominciando. Loro mi dicevano: «Tornerai a Roma». E io dicevo sì, ma quando? Rispondevano sempre: «Domani, inshallah!». Poi una mattina mi hanno regalato una catena d’oro: «Tieni, il nostro capo ti regala questa». Io ho pensato che era un buon segnale, mica mi regaleranno una collana se vogliono uccidermi, mi consolavo. Il pomeriggio dello stesso giorno mi hanno detto: per noi la tua vicenda è conclusa, realizziamo il video della liberazione e te ne vai a Roma. Naturalmente mi hanno detto cosa dovevo dire: dovevo ringraziare per essere stata trattata bene e l’esibizione della collana sarebbe stato il segno. «Sorridi», mi dicevano. Ma io ero nervosa, accanto a me vi erano due mujahidin armati, uno di loro prima del mio «ringraziamento» aveva letto un proclama, io non avevo capito nulla, nemmeno le parole arabe che conosco, avevo paura che quella fosse una rivendicazione, oppure che fossero le condizioni per la mia liberazione. Allora ho guardato negli occhi il mujahidin che aveva letto il proclama: «Ma è vero che mi libererete?». E lui mi ha risposto, sempre fissandominegli occhi: «Muslims no lies», i musulmani non mentono. Inshallah! Ma invece i giorni passavano, e non succedeva nulla, fino a venerdì 4 marzo.

Come al solito avevo chiesto se era il giorno buono per la mia partenza. E loro mi avevano detto che c’erano ancora dei problemi da risolvere. Improvvisamente, dopo alcune ore, sono arrivati i miei due carcerieri vestiti in maniera insolita, con i pantaloni e la camicia all’occidentale: «Complimenti, parti per Roma» e mi hanno detto stringendomi la mano. Mi hanno restituito ciò che avevo nella borsa, documenti e soldi, tranne il telefono satellitare, il cellulare, la macchina fotografica digitale e un blocchetto di appunti.

Il momento era estremamente delicato, me ne rendevo conto: «Se hai paura, prima di uscire devi tranquillizzarti – mi hanno detto – Se usciamo e ci intercetta una pattuglia americana o irachena e tu fai qualche segnale noi siamo pronti a rispondere al fuoco e saltiamo tutti in aria. Non si salva nessuno». Avevo capito e avevo una paura folle. Avrei voluto indossare un vestito come quelli delle donne wahabite, come quelli che ricordavo indosso alle due Simone nel video della loro liberazione, mi sarei sentita più tranquilla. Invece non hanno voluto, mi hanno fatto mettere i miei occhiali da sole, li hanno imbottiti di cotone e poi mi hanno fatto calare sugli occhi la mia sciarpa nera e siamo usciti.

L’ultima ora

Da quel momento io non ho visto più niente, mi hanno messa in macchina e siamo partiti. Non so quanto tempo ci abbiamo messo per arrivare nel posto dove ci siamo fermati, ma non molto. Forse una ventina di minuti, anche se avevo la percezione del tempo molto dilatata per la paura. Oltre ai due sequestratori c’era, mi pare di aver capito, anche un autista. Quel giorno a Baghdad pioveva, proprio come il giorno del sequestro. La macchina a un certo punto si è fermata su una pozzanghera, ho sentito lo splash e ho pensato: proprio adesso dovevamo impantanarci… Invece eravamo arrivati. Da quel momento è iniziato un conto alla rovescia interminabile. Mi hanno detto: «Adesso ti verranno a prendere» e mi hanno lasciata sola. Sentivo intorno a me altre macchine, voci in lontananza, qualche sirena della polizia, e soprattutto un elicottero americano che volteggiava sopra di me, si allontanava e poi tornava. Ero veramente terrorizzata perché mi rendevo conto che bastava un non nulla per far saltare tutto. A un tratto uno dei sequestratori è tornato e mi ha detto: «Ancora dieci minuti». «Dieci minuti – ho pensato – come posso resistere». Non sapevo che fare e ho deciso di contare fino a 600, ma lentissimamente in modo che i dieci minuti finissero prima della conta e forse nel frattempo qualcuno sarebbe arrivato. Invece no. «Continuo fino a 700», mi sono detta. E’ stato allora che mi sono resa conto che una macchina mi stava illuminando con i fari. Istintivamente mi sono rincantucciata. Poi avrei saputo che era la macchina sei miei liberatori. Stavo lì in questo angolo buio senza muovermi, vestita tutta di nero. E pensavo: se adesso si apre la porta cosa faccio? Poi la porta si è aperta davvero e ho sentito quella voce: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non avere paura, sono amico di Gabriele e di Pier, sono venuto a prenderti, sei libera, libera». Pensavo fosse finita, invece era finito solo il sequestro. (2-fine)