1)Tutta la riflessione di Marx e di Engels è legata all’idea che il socialismo si sarebbe affermato innanzitutto nei paesi capitalistici più sviluppati. Dove cioè sarebbe stato il capitalismo stesso, nel suo stadio più avanzato di sviluppo, a risolvere problemi quali l’efficienza della produzione, l’aumento della produttività del lavoro, il dinamismo indotto dalla concorrenza e dal mercato, l’innovazione scientifica e tecnologica. Affermandosi in questi paesi, nei punti alti dello sviluppo, il socialismo avrebbe poi trainato il resto del mondo, le colonie, i paesi più arretrati dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive.
Marx legava la possibilità del superamento della produzione mercantile (prevedibile in una fase avanzata della transizione al comunismo) non soltanto all’esistenza della proprietà sociale, ma anche ad un elevatissimo livello di sviluppo delle forze produttive e dell’automazione del lavoro, in cui l’uomo avrebbe partecipato sempre meno direttamente alla produzione materiale. Ciò avrebbe dovuto avere come presupposto uno sviluppo della scienza e della tecnica, ad un livello che ancora non è stato neppure oggi raggiunto in alcuna parte del mondo. E che certamente non era proprio delle prime esperienze di tipo socialista sperimentate nel ‘900, né di quelle ancora in corso, ma che appartiene ad un loro lontano futuro.
Marx dirà una volta (cito a memoria) : il socialismo richiede un alto grado di sviluppo delle forze produttive e della ricchezza sociale : altrimenti si socializzerebbe solo la miseria e ricomincerebbe la lotta per la vecchia merda!
E’ assente in Marx e in Engels, al di là di qualche cenno frammentario, privo di pregnanza teorica generale, una riflessione sistematica sulla eventualità e sulle problematiche di una transizione al socialismo che possa iniziare nei paesi più arretrati.
2)Fu Lenin – soprattutto negli ultimi anni di vita, quando era ormai chiaro che la rivoluzione non avrebbe vinto in Occidente – a misurarsi per primo, sul piano teorico e pratico, con le problematiche inedite di una “rivoluzione contro il Capitale”. Anche se Lenin, che morì nel 1924, potè solo abbozzare il problema che si concretizzò nella sperimentazione della NEP.
Era implicita nell’approccio leniniano – a volte esplicitamente dichiarata – l’idea che in un paese arretrato, tanto più dopo la sconfitta della rivoluzione in Occidente, la transizione al socialismo non sarebbe stato un processo di breve periodo, e che esso avrebbe visto, nell’economia, la compresenza di piano e mercato, di pubblico e privato, di elementi di socialismo e di capitalismo, con l’inevitabile conflitto sociale e di classe che ciò avrebbe determinato. E che il problema del potere politico socialista, utilizzando gli elementi di socialismo in economia (il settore pubblico), sarebbe stato quello di governare la transizione e di dominare gli elementi di mercato e di capitalismo, per utilizzarli e guidarli (non sopprimerli volontaristicamente) verso un loro graduale controllo e poi riassorbimento dentro le compatibilità del socialismo.
Ovvero, che toccava al potere socialista, tenendo conto dell’arretratezza della Russia, promuovere e governare alcuni fattori di sviluppo delle forze produttive che nei paesi più evoluti erano stati affrontati e risolti dal capitalismo; evitando al tempo stesso che essi diventassero prevalenti e rovesciassero il carattere e la prospettiva socialista della rivoluzione russa.
Lenin immaginava a tale proposito un processo dai tempi lunghi. E scriverà in proposito : “Tra capitalismo e comunismo vi è una fase di transizione che abbraccia una intera, lunghissima e complessa epoca storica”. In cui, in campo economico, convivono “elementi di socialismo ed elementi di capitalismo”. Questo periodo sarà “tanto più lungo quanto meno questa società è sviluppata”.
Lenin mette in guardia “contro le illusioni di facili scorciatoie”. “La presa del potere è solo il primo passo di una lunga transizione”. Ovvero : dopo la rottura rivoluzionaria (non vi è qui alcuna confusione possibile con un gradualismo di tipo riformista) il socialismo vince passando attraverso una lunga competizione tra elementi di socialismo e di capitalismo, entrambi presenti nella transizione, e vince quando i primi prevalgono compiutamente sui secondi.
3)Le circostanze storiche eccezionali e le scelte prevalenti nel gruppo dirigente bolscevico dopo la morte di Lenin, imposero un modello di industrializzazione accelerata e di forzata collettivizzazione che si cristallizzò nei decenni in un modello statalista integrale, e per molto tempo le problematiche insite nella riflessione dell’ultimo Lenin sulla Nep furono sostanzialmente rimosse. Riemersero qua e là, in modo frammentario, nel dibattito sulla riforma economica degli anni ’60 (nell’Unione Sovietica, in alcuni paesi dell’Est europeo…), ma non riuscirono mai, in quel periodo, a tradursi in un progetto organico di riforma.
Mentre il guevarismo a Cuba e il maoismo e la Rivoluzione culturale in Cina spingevano in direzioni opposte.
4)Per la verità, una riflessione di grande interesse emerge nel movimento comunista, appena dopo la 2° guerra mondiale, a proposito delle cosiddette “democrazie popolari” nei paesi dell’Est europeo. In un lungo saggio su Rinascita (la rivista teorica del Pci) del giugno 1947, che si intitola : “Che cosa è la democrazia di nuovo tipo”, (un testo che varrebbe la pena di riprendere analiticamente) l’economista e rivoluzionario ungherese Eugenij Varga (quadro storico dell’Internazionale comunista, uomo di fiducia di Stalin, certamente non un “eretico”) scrive :
“Il regime sociale di questi stati si differenzia da tutti gli stati da noi conosciuti finora : è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia dell’umanità”….In essi “esiste il sistema della proprietà privata sui mezzi di produzione; ma le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito sono nelle mani dello stato e lo stato stesso e il suo apparato di repressione non servono gli interessi della borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori”…”Con la nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione e col carattere stesso di questi Stati sono state gettate le basi per il loro passaggio al socialismo. Essi possono, mantenendo il potere statale attuale, passare gradualmente al socialismo sviluppando sempre più le organizzazioni di tipo socialista che già esistono accanto alle aziende mercantili…e …capitalistiche che hanno perso la loro posizione preminente”…”Così la struttura sociale negli Stati democratici di nuovo tipo non è la struttura socialista, ma una nuova forma originale di transizione. Le contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione si attenuano man mano che aumenta il peso specifico del settore socialista”.
Quello che si prefigura qui è dunque un processo di transizione nell’ambito di una economia mista, con un potere politico orientato al socialismo.
5)La stessa problematica si ritrova anche nella elaborazione del Pci di quegli anni sulla “democrazia progressiva” e sulla “via italiana al socialismo”. Nella Dichiarazione programmatica varata nel 1956 dall’8° congresso, si può leggere :
“La costruzione di una società socialista deve prevedere, data la struttura economica italiana, tanto la protezione e lo sviluppo dell’artigianato, quanto la collaborazione con una piccola e media produzione che, non avendo carattere monopolistico, può trovare in un regime socialista condizioni di prosperità per lunghi periodi, prima del passaggio a forme di produzione superiori, sempre sulla base del vantaggio economico e del libero consenso”.
Come si vede gli spunti non mancano, ma anche qui, per diverse ragioni(oggettive e soggettive), a partire dal condizionamento operato dalla guerra fredda e dalle rigidità politiche e ideologiche che essa porta inevitabilmente con sé, il tutto non si trasforma in una riflessione e soprattutto in una sperimentazione organica. E anche le nuove intuizioni riguardanti la transizione al socialismo nelle democrazie popolari, vengono riassorbite dentro l’allineamento “di campo” al modello sovietico e alla nuova militarizzazione delle relazioni internazionali, imposta dall’imperialismo e dalle minacce di una nuova guerra (nucleare) contro l’Unione sovietica e il campo socialista.
6)L’originalità delle riflessioni di Deng Xiaoping, che si affermano nel partito comunista cinese nel 1978, dopo la morte di Mao e la sconfitta della “banda dei quattro”, sta proprio – a mio avviso – nella forte riproposizione, attualizzazione e sistematizzazione del temi sollevati da Lenin nella Nep, sia pure nell’ambito di una riflessione che parte dal contesto cinese, senza pretese generalizzatrici, senza la velleità di indicare un “modello”.
Sono riflessioni che vengono da lontano.
Il nuovo gruppo dirigente cinese riflette sul fallimento del “soggettivismo” e del “volontarismo” economico della Rivoluzione culturale, ma ha ben presente anche la stagnazione economica che comincia a caratterizzare il sistema sovietico. Si afferma il tentativo di un primo bilancio critico complessivo dell’esperienza del socialismo reale in economia, che troverà ulteriore incoraggiamento e impulso con il fallimento della perestrojka gorbacioviana.
L’idea guida è che la crisi del socialismo reale è prima di tutto economica, di difficoltà a reggere la competizione economica e tecnologica con i paesi capitalistici più sviluppati. Per cui, se il socialismo non riesce a reggere tale sfida, esso è destinato a soccombere. E così pure se esso non riesce a reggere la sfida della modernizzazione capitalistica e della competizione mondiale, a cui non è realistico pensare di poter sfuggire con economie chiuse, semi-autarchiche, né con forme di esasperato protezionismo; tanto più in paesi ancora in via di sviluppo, come la Cina.
E quindi le società di ispirazione socialista sopravvissute al crollo del sistema sovietico, devono trovare le forme adeguate per introdurre elementi di forte dinamizzazione nello sviluppo delle forze produttive, imparando anche dalle esperienze più avanzate dei paesi capitalistici, utilizzandole e assumendone quegli aspetti che possono rivitalizzare il processo di costruzione socialista. Tanto più se esso avviene in paesi ancora in via di sviluppo, come appunto la Cina. Dove, secondo l’approccio denghista, il processo di costruzione del socialismo comporta un lungo processo di transizione, destinato a durare per una lunga fase storica, prima di pervenire ad una società socialista sviluppata degna di questo nome, che possa credibilmente proporsi la realizzazione compiuta degli obiettivi e delle finalità di ciò che da Marx in poi chiamiamo “comunismo”.
7)A chi con impazienza obbietta sul loro millenarismo, i comunisti cinesi rivolgono garbatamente l’invito a non scambiare i desideri con la realtà e replicano che anche la formazione delle società capitalistiche più evolute è il frutto di un lungo processo storico di transizione durato alcuni secoli; e non si comprende per quale magia la costruzione compiuta del socialismo su scala mondiale, e segnatamente nei paesi più arretrati, dovrebbe avvenire in tempi brevi.
Anzi, l’obiezione che si avanza all’insieme della riflessione teorica del movimento comunista del novecento è proprio quella di averlo considerato, volontaristicamente, come il secolo della crisi generale e conclusiva del capitalismo e della vittoria finale del socialismo.
Il processo di transizione al socialismo su scala mondiale si è invece rivelato, alla luce dell’esperienza storica, assai più lungo e tortuoso di quanto non fosse nelle concezioni e previsioni dei fondatori del socialismo scientifico e dei maggiori esponenti del movimento comunista del ‘900. I quali, tutti, più o meno esplicitamente e a partire da concezioni e strategie molto diverse (coesistenza pacifica, rivoluzione nel terzo mondo, inevitabilità di una terza guerra mondiale, ecc…) ritennero che il 20° secolo avrebbe visto la crisi risolutiva del sistema capitalistico e la vittoria del socialismo su scala mondiale (chi attraverso la competizione pacifica, chi attraverso la rivoluzione del Terzo Mondo, chi attraverso un nuovo conflitto mondiale): con una sottovalutazione, alla prova dei fatti, delle potenzialità espansive, di sviluppo e di auto-regolazione del sistema capitalistico e una sopravvalutazione delle potenzialità delle prime esperienze storiche di transizione.
La transizione va dunque intesa come un lungo processo storico, ricco di fasi intermedie di avanzata e arretramento.
Va superata l’idea di una società socialista come cristallizzazione di una fase intermedia ma conchiusa della transizione, con proprie leggi generali staticamente intese, sempre più omogenea e priva al suo interno di contraddizioni anche antagoniste, così come per decenni – soprattutto negli anni ‘60-’70 – il socialismo sovietico (con un approccio assai poco marxista) ha rappresentato se stesso, coniando – nell’era brezneviana – la nozione di “società socialista sviluppata”.
8)Per quanto sia problematico fare delle previsioni (chi avrebbe potuto, 20 anni fa, prevedere l’ampiezza, la radicalità e la rapidità dei sommovimenti che di lì a poco avrebbero investito i paesi del “socialismo reale”?), è credibile ritenere che il sistema capitalistico abbia prolungato di molto la propria soglia storica di sopravvivenza (Fidel). Per cui la fase non contingente che si apre innanzi a noi non si presenta come quella della crisi generale e conclusiva del capitalismo (né, peraltro, come quella di una sua stabilizzazione organica e permanente), bensì come una lunga e complessa fase, di acuti conflitti sociali e politici, in cui gli ineludibili antagonismi di classe e di sistema continueranno ad operare e ad intrecciarsi con esigenze e possibilità nuove di costruzione di equilibri più avanzati.
Il problema fondamentale è quello di chi guiderà nei prossimi decenni la crescente interdipendenza delle relazioni mondiali, se i gruppi dominanti dell’imperialismo e di grandi potenze imperialiste, o se invece saprà crescere una convergenza internazionale di forze progressive, popoli, Stati non omologati al dominio imperialistico, capaci di incidere e condizionare l’evoluzione del mondo. Per non parlare della eventualità di scenari assai più catastrofici, da terza guerra mondiale, che non possono essere aprioristicamente esclusi.
9)Si tratta inoltre di superare una concezione per cui la crisi del socialismo sovietico avrebbe sostanzialmente la sua origine in un deficit di democrazia politica (che pure vi fu). Il fallimento della perestrojka, da un lato, e la rivitalizzazione di esperienze di transizione come quella cinese o vietnamita, dall’altro, evidenziano invece la centralità delle questioni strutturali, del modello di sviluppo, delle forme di proprietà e di gestione dei processi produttivi; senza che ciò conduca ad una rimozione delle altre.
10)Le esperienze di costruzione del socialismo che hanno segnato la storia del XX° secolo, hanno messo in luce in proposito limiti profondi e strutturali di un “modello”, che per decenni ha avuto come assi portanti:
– la statalizzazione pressoché integrale della vita economica e sociale e il mancato riconoscimento del ruolo non marginale del settore privato nella transizione, tanto più nei paesi ancora alle prese con problemi primordiali dello sviluppo a causa della loro arretratezza;
– una pianificazione rigidamente centralizzata e gerarchica e un dirigismo aziendale che ha sostanzialmente escluso i lavoratori (i “produttori”) dalla partecipazione responsabile alla gestione delle unità produttive e alla elaborazione democratica del piano, determinando una oggettiva separazione dei produttori dai mezzi di produzione (statalizzazione senza socializzazione);
– l’inadeguatezza di un sistema di incentivi (per i singoli, per le imprese, per i collettivi aziendali), capace di premiare quantità, qualità e spirito di iniziativa del lavoro umano.
Tali problematiche sono in ultima analisi riconducibili alla grande questione del rapporto tra piano e mercato, tra economia pubblica e privata, con una presenza del settore pubblico che sia sufficiente – per estensione, qualità ed efficienza – ad orientare le scelte strategiche dello sviluppo.
Si tratta cioè di riconoscere il ruolo di un “mercato socialista” (definizione tutta da riempire di contenuti e concrete sperimentazioni) per una lunga fase di transizione, prima del passaggio a forme più avanzate di socializzazione, oggi non prefigurabili. Un tema questo che è oggi al centro del dibattito di quasi tutti i maggiori partiti comunisti al mondo, siano essi al potere, al governo o all’opposizione (da questo punto di vista, per fortuna, lo stato prevalente del dibattito nel movimento comunista dell’Europa occidentale, di matrice post-eurocomunista, non fa testo).
11)Rispetto ad alcune tesi liquidatorie dell’esperienza storica del socialismo del ‘900, vorrei ricordare quello che ha detto recentemente in una intervista il presidente del PC giapponese, Tetsuwo Fuwa (che pure è un liquidatore feroce dell’esperienza sovietica); e cioè “quanto sia oggi ancora prematuro fare un bilancio del 20° secolo in relazione al socialismo. Nel 20° secolo l’Urss e i paesi dell’Europa dell’Est non sono stati gli unici paesi ad abbandonare il capitalismo per diventare paesi socialisti. Al contrario, in termini di popolazione sono solo una minoranza tra quei paesi che hanno tentato di costruire il socialismo”.
(Precisamente : su circa 1 miliardo e 800 milioni di esseri umani che nel secolo scorso hanno intrapreso la costruzione del socialismo, un miliardo e 500 milioni ancora ci stanno provando, e rappresentano poco meno di un quarto dell’umanità intera – NdR).
“Ho visitato la Cina e il Vietnam. A seconda delle strade che percorreranno nel 21° secolo per diventare paesi socialisti e dei risultati che otterranno, la valutazione del 20° secolo in relazione al socialismo sarà molto diversa. E’ infatti troppo presto per trarre un bilancio del 20° secolo, basandosi solo sulla fine dell’Unione Sovietica e dei sistemi dell’Europa orientale”.