Dal revisionismo al rovescismo

Difficile dare una data esatta, alla domanda: quando tutto questo ha avuto inizio? Ma arrischierei: tra dicembre 1987 e gennaio 1988, dunque prima del “crollo”, dello sdoganamento dei missini, prima che la trasmutazione genetica del Pci fosse conclusa. Dunque a cavaliere del biennio in questione – l’87-88 Renzo De Felice rilasciava a un ex comunista come lui, della generazione seguente, Giuliano Ferrara, un’intervista sul Corriere della Sera . Il titolo recitava: «De Felice: perché deve cadere la retorica dell’antifascismo» (in prima pagina) e ripresa a pagina 2 col titolo «Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole». All’intervista seguì una pagina di commenti due giorni dopo, e quindi un dibattito su Raitre, sempre sotto la conduzione (come si può immaginare imparzialissima) di Ferrara: il suo titolo «Seppellire l’antifascismo?». Due squadre che difendevano, rispettivamente, come fondanti i valori dell’antifascismo (Scoppola, Spriano, Forcella, Pasquino) e, contro, gli abrogazionisti (De Felice, Galli della Loggia, Colletti, Mieli). La polemica da storiografica divenne ipso facto politica. Dopo e accanto agli ideologi, entrarono in campo, a gamba tesa, leader di partito, a cominciare da Craxi il quale si dichiarò d’accordo con De Felice; con lui il primo a complimentarsi per il coraggio dello storico fu un giovane politico destinato ad ascendere alla terza carica dello Stato, Gianfranco Fini, che addirittura proclamò, gongolante: «E’ finito il dopoguerra». In un puntuale intervento a caldo su La Stampa , un giovane ottantenne, Sandro Galante Garrone, coglieva i nessi intricati, ma del tutto visibili a chi, come lui, avesse occhi per guardare, fra quel sommesso tramestio e il più rumoroso parlare che si faceva di “Grande Riforma”, “Seconda Repubblica”, “Nuova Costituzione”… Il «subdolo intento» – osservava il vecchio combattente – che emergeva dietro «certi artificiosi abbellimenti del passato, e reticenze, e inviti alla riconciliazione», era quello, in definitiva, di «sbarazzarsi di una Costituzione antifascista, nata dalla Resistenza». Da allora il gioco si è fatto via via più duro ed esplicito, con il progressivo venir meno di mediazioni. E gli stessi capi dello Stato, garanti della Carta costituzionale, hanno dovuto accontentarsi di giocare, con minore o maggiore convinzione, di rimessa (sotto questo riguardo il mio riconoscimento più pieno va a Scalfaro). Era cominciato un massiccio uso politico della Storia, da parte dei media – la cui “indipendenza” in Italia, come si sa, è nulla o quasi – e da parte del ceto politico: la storia, e in specie il ciclo fascismo/antifascismo/guerra mondiale/resistenze, divenne una prateria dove ciascuno poté compiere impunemente le proprie scorrerie, senza cautela alcuna, senza serietà, né onestà intellettuale. La storia diventava semplicemente una clava da usare per delegittimare gli avversari o autolegittimarsi politicamente, magari ricorrendo, come fece la Lega di Bossi fin dai suoi albori, a grotteschi, ma non del tutto inefficaci tentativi di inventare una ridicola “identità” padana, con tanto di invenzione di inesistenti tradizioni e caratteri endogeni. Sebbene esempi importanti fossero giunti da Francia (Furet e la sua critica sempre più feroce alla Grande Révolution) e Germania (Nolte e il dibattito con Habermas, sul «passato che non passa», che finiva per condurre a un drastico ridimensionamento delle responsabilità del nazismo), fu proprio il Bel Paese il luogo ideale per il revisionismo politico. Con una forte accelerazione post-1989. E una nuova, ulteriore, post-“discesa in campo” del Cavaliere, che finì, anche su questo piano, per raccogliere le premesse poste dal suo grande padrino politico Bettino Craxi. In mezzo, all’inizio degli anni 90, toccò a un libro – frutto di un’approfondita ricerca di Claudio Pavone, storico e partigiano essere preda di caccia del nuovo revisionismo. Un furbesco espediente editoriale trasformando il sottotitolo in titolo, consentì una “rilettura” (come si cominciò a dire) del biennio ’43-45 in chiave revisionistica: «Una guerra civile», fu il titolo editoriale; che in realtà era il sottotitolo originale dato dall’autore, mentre il titolo suonava: «Saggio sulla moralità della Resistenza». Trattandosi di un volume di oltre 800 pagine, pochi ebbero interesse a leggerlo, e si fermarono, non a caso, a quel titolo: «L’avevamo sempre detto», fu il commento delle vecchie destre, cui si aggiunsero le nuove, anche di diversa origine. Intanto c’era stata la Bolognina, e poi le varie catastrofi che portarono, dopo l’incompiuta “rivoluzione” di Mani Pulite, al berlusconismo. E a Luciano Violante che da presidente della Camera rese omaggio ai “ragazzi di Salò”. Di là fu una china precipitosa, con o senza Berlusconi al governo: una gara a relativizzare il fascismo, a “problematizzare” la Resistenza, a insistere su Foibe (dando numeri davvero ridicoli, moltiplicando per fattore 100 o addirittura 1000 i morti, e dimenticando genesi e contesto di quei fatti; e fu sotto il centrosinistra che si arrivò al “Giorno del Ricordo” per gli esuli italiani…), triangoli della morte, giù giù fino ai casi penosi di “rovescismo”, termine che mi onoro di aver coniato per definire la fase suprema del revisionismo, e che ha trovato in un giornalista, con velleità da storico (mancato) e da scrittore (fallito), il suo Zorro vindice dei poveri fascisti di Salò. Mentre il solito Galli della Loggia teorizzava l’8 settembre come giornata infausta: addirittura «morte della patria», riprendendo un’espressione di un dimenticato Sebastiano Satta, e volgendola ai propri scopi nient’affatto conoscitivi, ma ideologici. Sulla scena pubblica, intanto, amministratori locali si davan da fare con la toponomastica per ricuperare alle glorie patrie vecchi arnesi del Fascio, o aprivano circoli, facevano manifestazioni; memorabile quella recentissima nel cimitero Trespiano (Fi), per commemorare “i franchi tiratori” di Firenze, i cecchini fascisti che sparavano sulla folla, sui partigiani e sugli Alleati che entravano in città nel ’44: in quel cimitero sono sepolti i Rosselli, Salvemini, Ernesto Rossi: quasi tutto il meglio dell’antifascismo italiano. O, infine, direttamente avviavano spedizioni punitive contro “comunisti”, anarchici, extracomunitari (meglio se Rom), come s’è visto negli ultimi tempi a Roma, Milano e altrove, magari confortati da ammonimenti e benedizioni di Berlusconi, tra un rabbuffo e una barzelletta; mentre lui stesso, sul piano nazionale, tra riforma piduistica, norme legislative ad personam, e scudo spaziale contro la Legge in generale, mostrava in estrema sintesi, e con grande chiarezza, quale fosse l’esito, tutto politico, del revisionismo. Alemanno e La Russa, in un coretto di mezze figure tra accademia e parlamento (menzione speciale per Gaetano Quagliariello, fusione perfetta di accigliata mediocrità e trombonesca autoconsiderazione), ne sono soltanto gli ultimi, per ora, squallidissimi, quanto miserandi portavoce. L’ANTIFASCISMO NON È UN VALORE A fine anni 80 Craxi si schierò a favore della rilettura del fascismo dello storico De Felice e considerò chiusa l’era dell’antifascismo come valore fondante della carta costituzionale. FASCISMO NON È MALE ASSOLUTO Così il sindaco Gianni Alemanno domenica scorsa. Ha aggiunto:«Male assoluto sono le leggi razziali volute dal fascismo e che ne determinarono la fine politica e culturale». L’EX COMUNISTA E I RAGAZZI DI SALÒ Nel ’96, da presidente della camera, fece un appello a «capire, senza revisionismi falsificanti», i motivi dei ragazzi che «quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dei diritti e delle libertà».
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