Dal movimento contadino alla sfida dell’unità sindacale

A soli sette anni, Giuseppe Di Vittorio, nato a Cerignola (Foggia) l’11 agosto del 1892, aveva dovuto lasciare la scuola a causa della morte del padre, lavoratore agricolo alle dipendenze di grandi proprietari terrieri. La militanza nelle file del movimento contadino della sua città risale agli anni della primissima adolescenza. Fondò un circolo giovanile socialista, impegnandosi contemporaneamente come dirigente della Lega dei braccianti e della Camera del lavoro. Aderì al sindacalismo rivoluzionario, sostenendo contemporaneamente posizioni unitarie all’interno delle strutture camerali pugliesi. Già arrestato in occasione di uno sciopero nel 1911, in seguito ai fatti verificatisi durante la settimana rossa, fu costretto ad espatriare in Svizzera per alcuni mesi. Ferito al fronte, durante la Grande guerra, fu a lungo trattenuto come elemento sovversivo e disfattista, nonostante avesse aderito inizialmente alle posizioni dell’interventismo democratico.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, fu segretario della Camera del lavoro di Bari e, di fatto, il massimo dirigente delle lotte sindacali in Puglia. Eletto alla Camera alle elezioni del 1921, poté riprendere l’attività sindacale e politica dopo essere stato nuovamente arrestato per aver organizzato uno “sciopero regionale antifascista”. Nel periodo precedente la marcia su Roma fu tra i promotori dell’Alleanza del Lavoro e aderì attivamente alle formazioni degli Arditi del Popolo. Organizzò la riuscita difesa di Bari vecchia dagli assalti delle squadre fasciste durante lo “sciopero legalitario” dell’agosto 1922. In questo periodo maturò il suo passaggio alla componente socialista favorevole alla fusione col Partito comunista e all’adesione all’Internazionale comunista.
Entrato definitivamente nel Pcdi nel 1924 fu a capo, assieme a Ruggero Grieco, dell’Associazione nazionale di difesa dei contadini. Arrestato nel 1925 e detenuto sino alla metà del 1926, per disposizione del partito espatriò in Francia, subendo subito dopo una condanna, in contumacia, a 12 anni di carcere. Prima a Mosca, come dirigente dell’Internazionale contadina, poi a Parigi, nell’apparato illegale del partito, svolse la sua attività antifascista preoccupandosi prevalentemente di questioni sindacali. Fu così a capo della Cgil clandestina che conviveva in quel periodo con la ricostituita Cgil “all’estero” diretta da Bruno Buozzi.
Dopo la firma del patto di unità d’azione con i socialisti, condusse le trattative per la riunificazione delle due confederazioni. Alla fine del 1936 partì per la Spagna; rientrato a Parigi nel ’37 divenne direttore della “Voce degli italiani”. Arrestato nel 1941 scontò il confino a Ventotene sino alla caduta del regime. Iniziò subito il lavoro per la ricostituzione della massima struttura sindacale, firmando nel giugno del 1944 il “patto di unità sindacale” fra comunisti, socialisti e cattolici.
Prima della Liberazione fu eletto segretario provvisorio della rinata Cgil e i tutti i congressi successivi riconfermato segretario generale. Membro dell’Assemblea costituente, fu eletto alla Camera alle elezioni del 1948 e del 1953.
Da segretario della Cgil si impegnò strenuamente per evitare la scissione della Confederazione, dopo la fine dei governi di coalizione. Nel 1949 fu eletto presidente della Federazione Sindacale Mondiale (carica che gli verrà riconfermata nel 1953 e nel 1957) e nello stesso anno lanciò al congresso di Genova la proposta del “Piano del Lavoro”. Fu tra i più amati dirigenti del movimento operaio italiano; al mito legato alle vicende degli anni della sua infanzia e a quelli della lotta antifascista, seguì negli anni Quaranta e Cinquanta la sua straordinaria popolarità fra i lavoratori, anche fuori dell’Italia. Morì in seguito ad un infarto avuto nel corso di una manifestazione per l’inaugurazione di una nuova sede della Camera del lavoro a Lecco, il 3 novembre del 1957.