Che tra i lavoratori e le lavoratrici vi fosse un forte dissenso verso le politiche economiche e sociali degli ultimi 15 anni era un fatto noto. I segnali che di tanto in tanto giungevano alla ribalta evidenziavano questo malessere, ma venivano descritti come episodi isolati e non come una linea di tendenza.
E’ stato così alla Fiat di Melfi, nella rivolta degli autoferrotranvieri o, in quella degli operatori di call center. Sono le lotte di chi, come gli operai della Fiat, guadagna 1.100 euro al mese o del variegato mondo della precarietà che ai 1.100 euro neanche si avvicina, di chi vede ogni giorno messo in pericolo il proprio posto di lavoro, la propria salute, di chi rischia la vita in lavori disagevoli e mal pagati. In questo contesto, il dissenso plateale espresso dai lavoratori e dalle lavoratrici di Mirafiori verso i vertici del sindacato confederale ci indica il problema vero, ossia la voglia di una reale democrazia sindacale, di poter decidere collettivamente senza subire accordi calati dall’alto.
Quello che viene messo in discussione è l’insieme delle regole e delle prassi sindacali, avviate con l’accordo interconfederale sulle Rsu, nel lontano 1993. I risultati hanno acuito la crisi del rapporto tra i lavoratori e chi fa accordi, senza neanche chiedere un mandato prima di qualsiasi trattativa o di consultarli in merito agli accordi sottoscritti. Anche la legge Bassanini sulla rappresentanza nel pubblico impegno va ripensata, in quanto tra l’altro non contempla il diritto di voto dei lavoratori sugli accordi sindacali.
Il rilancio delle politiche concertative, indicato come bussola dal governo Prodi, dimostra come la pressante richiesta di democrazia che proviene dal mondo del lavoro sia ancora una volta caduta nel vuoto. I temi oggi in discussione, dalla redistribuzione della ricchezza alle pensioni, dal Tfr agli ammortizzatori sociali, dalla privatizzazione dei servizi pubblici, alla lotta contro la precarietà, risentono del mancato coinvolgimento dei lavoratori dipendenti. Proseguire nella prassi di firmare accordi senza un confronto democratico nei luoghi di lavoro, produrrebbe una ulteriore lacerazione non solo nei confronti del sindacato ma, anche, verso una classe politica che confermerebbe di essere più attenta ai dettami neoliberisti che alle istanze che provengono dai movimenti sociali. Tutti gli indicatori economici dicono che il principale problema del mondo del lavoro sia la caduta del potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni e che le forme di assistenza e di servizi sociali che costituivano una rete di protezione delle classi meno abbienti (trasporti, casa, scuola, sanità, servizi sociali) sia stata in buona misura smantellata, acuendo il disagio economico.
A fronte di questa emergenza, stupisce che non vi sia spazio reale su questi temi nell’agenda politica del governo. Le due questioni fin qui illustrate, la democrazia nei luoghi di lavoro e le emergenze economiche e sociali camminano di pari passo, l’una essendo fortemente correlata alle altre. Nel corso degli anni le difficoltà della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro hanno prodotto una caduta della partecipazione, favorendo di converso un inutile rafforzamento della burocrazia sindacale. Gli scarsi poteri che l’accordo interconfederale assegnava alle Rsu sono stati gradatamente svuotati dai contratti nazionali, dalla presenza eccessiva delle strutture sindacali nelle trattative aziendali, dalla mancanza di consultazione dei lavoratori, del venire meno del loro potere decisionale. E’ un processo graduale, pervasivo, che è partito dall’alto, e che poi si è affermato come prassi sui territori e nelle singole aziende. Da qui occorre ripartire, superando le storture e le limitazioni alla democrazia sindacale, restituendo potere nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici, mettendoli in condizione di poter decidere, anche attraverso il voto, in prima persona.
Favorire la partecipazione dei lavoratori implica il loro ritorno a una presenza attiva nella sfera politica, al voler contare realmente, al riuscire a rimettere al centro del dibattito politico le necessità di coloro che in tutti questi anni hanno favorito la crescita e lo sviluppo economico del nostro paese.
In questo senso una nuova legge sulla rappresentanza sindacale e per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, di tutte le imprese anche con meno di 15 dipendenti, può e deve essere lo strumento che favorisce l’innescarsi di autentici processi democratici e l’affermazione di quei diritti troppo spesso soffocati, a partire da un pieno diritto di sciopero, a una retribuzione dignitosa, a una reale tutela dell’integrità fisica, ma, soprattutto dalla possibilità di eleggere ovunque i propri rappresentanti sindacali, in modo certificato, senza quote riservate, con reali poteri, diritti e tutele, vincolati al parere dei lavoratori e delle lavoratrici.
In un paese in cui le lobby economiche determinano le scelte politiche occorre reintrodurre meccanismi che favoriscano l’affermarsi di processi democratici e di partecipazione dal basso che vengono negati ai movimenti sociali, alle popolazioni, agli stessi lavoratori dipendenti, quale alternativa a una concezione autoritaria della società.
* senatore del partito della Rifondazione comunista
** direzione nazionale Fiom Cgil
*** vicecoordinatore nazionale SdL Intercategoriale