Dagli Usa una generosità solo virtuale.

BELGRADO — Come in una combinazione di casseforti collegate, la porta della prigione si è chiusa alle spalle di Milosevic e in poche ore altre porte si sono invece aperte nel mondo della finanza americana, al Fondo monetario, alla Banca mondiale. Come primo effetto concreto dell’arresto gli Stati Uniti hanno concesso 50 milioni di dollari per la ricostruzione della Jugoslavia. Non è un’offerta particolarmente generosa. Dal 1992, da quando la federazione creata da Tito cominciò a frantumarsi, gli Stati Uniti hanno congelato nelle loro banche beni jugoslavi per un valore di circa un miliardo e settecento milioni di dollari. Questa era la valutazione dei consiglieri finanziari di Milosevic. Stime più neutrali arrivano comunque oltre il miliardo di dollari. E anche misurando con una certa approssimazione il peso economico delle varie repubbliche che componevano lo Stato multietnico di Tito oggi Serbia e Montenegro dovrebbero avere di ritorno da Washington almeno 400 milioni di dollari. Senza contare gli interessi maturati.
All’Associazione delle banche jugoslave il segretario generale Babovic dice di non conoscere la cifra esatta congelata dagli americani e rimanda alla Banca centrale. Ma nemmeno lì hanno un resoconto da esibire. Tra le ambiguità ereditate da Kostunica ci sono i conti finanziari rimasti in sospeso con Washington. E all’esempio americano si sono ispirati negli anni passati anche la Libia e l’Iraq, nonostante le affinità politiche coltivate a suo tempo con il Movimento dei Paesi non allineati. L’Europa invece ha cominciato più rapidamente a scongelare i beni di Belgrado. I soldi jugoslavi bloccati in America rappresentano come un tabù per il nuovo potere sostenuto dall’Occidente. Un professore all’Istituto di economia dice che è una situazione imbarazzante, come sollecitare un rimborso da un parente.
Un miliardo di dollari fermo per dieci anni in una banca non viene compensato con il tasso di interesse riservato ai conti correnti dei clienti normali. Per questo subito dopo il ’92 Belgrado cominciò a sollecitare da Washington precisazioni e dettagli sul tasso di interesse applicato. Ma non arrivava alcuna risposta. Anche i grandi alleati economici del passato, come Boeing, quando la Jugoslavia era l’unico Paese dell’Est a comprare aerei civili americani invece che Tupolev russi, si erano dileguati. Dopo ripetuti solleciti gli americani cominciarono a concedere un interesse teorico del 2,5 per cento che progressivamente è salito di un altro punto. Anche un bambino capisce che il 3 per cento su un miliardo di dollari rappresenta una resa insignificante. L’esperto finanziario di una società tedesca che vuole guadagnare terreno in Serbia sostiene che questa storia dei soldi congelati in sostanza assomiglia a una rapina. Con il pretesto che Milosevic era al potere e che le ex repubbliche della Federazione non si accordavano sulle rispettive percentuali, quella somma non è ancora tornata a titolari legittimi. Già tra il ’91 e il ’93 la Jugoslavia aveva conosciuto, con buon anticipo sull’Albania, lo sviluppo delle piramidi finanziarie, che promettevano guadagni fantastici. Il disastro economico cresceva assieme ai disastri militari. L’aiuto finanziario degli Usa oggi è un esempio di generosità virtuale.