Dagli Usa alla Libia, il Far West dell’atomo «civile»

Tutti pazzi per l’atomo. Al di là delle barriere ideologiche, dei credi politici: tra le crepe delle centrali giapponesi e britanniche (per non scomodare la nostra modesta Saluggia), il Papa benedice il nucleare (ben inteso «civile»), Sarkozy lo baratta con qualche infermiera bulgara, la Germania si sente fregata, Bush e il suo omologo indiano ne fanno la breccia di Porta Pia del Tnp (e uno sbarramento alla Cina; ma anche il Pakistan, comprensibilmente, si allarma), mentre Zapatero con le vele al vento vuole chiuderlo per il 2030, e Putin invece lo rilancia. La Corea del Nord sembra avere raggiunto, per ora, il suo scopo. Un bel rebus
Per cercare di leggere una realtà così in ebollizione è necessario stabilire qualche criterio di fondo.
In 60 anni, 130mila bombe
Vi è un primo punto cruciale per impostare il problema, che anche il Papa non dovrebbe mistificare. Per il nucleare «civile» i conti non tornano, da qualsiasi parte si girino: tutte le motivazioni sono contestabili alla radice, i costi sono aleatori e si moltiplicano sempre sul campo (anche per i tempi lunghi di costruzione delle centrali e l’evoluzione delle norme di sicurezza). La semplice verità è che i programmi nucleari «civili» sono subordinati e funzionali ai programmi militari – ufficiali, o più o meno reconditi – che ne costituiscono il supporto e la motivazione. In 60 anni sono state realizzate alcune centinaia di reattori di potenza, a fronte di circa 130.000 bombe.
Secondo punto: perché le armi nucleari che apparivano obsolete dopo il crollo dell’Urss, anziché venire eliminate sono invece ritornate così importanti? E non per colpa di quelle canaglie della Corea e dell’Iran: non confondiamo le cause con gli effetti. Il punto è che è bastato il giochetto di prestigio di cambiare radicalmente la concezione e il ruolo militare di queste armi: esse hanno retto l’«equilibrio del terrore» per il ruolo di deterrenza, sotto il presupposto che non si dovessero usare; negli ultimi 10 anni sono invece state portate sullo stesso piano degli altri sistemi d’arma «convenzionali», quindi armi da usare, sul campo di battaglia, anche in funzione preventiva.
Anche per il nucleare «civile» è avvenuto un giochetto. Negli anni ’70 si cercava di spacciarlo come la fonte più economica, oggi invece come l’unico modo per contrastare l’effetto serra. Ma come si diceva, i conti non tornavano allora e non tornano oggi (lasciamo perdere il basso costo dell’energia elettrica prodotta dalla Francia, camuffato dai costi colossali dell’arsenale nucleare). Ormai il capitalismo è diventato puramente finanziario; produrre è quello che interessa meno (semmai ci penserà la Cina): non passa neanche per la testa di prendere altre misure razionalizzatici, come la trasformazione del sistema di trasporti e autostrade, o dell’agricoltura, o il risparmio energetico, perché non rendono. Il nucleare è la nuova frontiera della speculazione: fasulla, se si pensa che produce solo energia elettrica, appena il 17 % dei consumi energetici, e quella appunto più soggetta agli sprechi. Per evitare un aumento di appena 0,2o C del riscaldamento globale per la fine del secolo occorrerebbe costruire 1.200 nuove centrali, per compensare anche quelle che verranno chiuse, al ritmo difficilmente immaginabile di 14 all’anno.
La lenta agonia del Tnp
Secondo queste premesse, i nodi per cercare di dipanare l’incalzante cronaca nucleare sono – con la regia di Washington – India, Iran, Israele e i paesi arabi dell’area, anche se le armi con cui sono stati imbottiti sono «convenzionali». Il mostro partorito da Washington e New Delhi non può che avere una logica stringente: un’alleanza strategica di potere (l’India sta costruendo basi militari oltremare, diventando il guardiano dell’Oceano Indiano, con l’aiuto di sommergibili stealth forniti dalla Francia), un cuneo nello scacchiere asiatico, guardando alla Cina e all’Iran (con la pesante incognita del Pakistan), condito da enormi interessi economici (otre gli affari nucleari, acquisto di armi per 10 miliardi di dollari all’anno per 10 anni), legittimando un Far West nucleare con la messa in soffitta del Trattato di non proliferazione (Tnp). Un siluro alla Conferenza di Revisione del Tnp del 2010, dopo il perverso fallimento del 2005. Chi prolifera e chi no sarà deciso dagli interessi di Washington (Bush chiede maggiori finanziamenti per una nuova testata, agitando le minacce della Corea e dell’Iran).
Lo sdoganamento delle armi nucleari disegna un contesto strategico nuovo: è nel quadro di una minaccia nucleare che si tira come la trippa che fioriscono i progetti di difesa antimissile e di armi spaziali. Si potrebbe dire che se il petrolio è il movente delle guerre, il nucleare potrebbe divenirne il motore. Si sono accumulate nel mondo la bellezza di quasi 2.000 tonnellate di plutonio, più 2.000 di uranio altamente arricchito (nessuno dei due esiste in natura, di entrambi bastano pochi chili per una bomba): la cui origine inoltre è opposta, dell’uranio il 90 % militare, del plutonio 90 % «civile». Il Giappone ne ha una cinquantina di tonnellate, e continua ad accumularne. In Gran Bretagna il British Nuclear Group dovrà pagare 2.500 sterline per un perdita di 160 kg di plutonio e 20 tonnellate di uranio, scoperta dopo 8 mesi (ma dopo la multa si sono scoperte falle in 3 centrali).
Mentre le centrali giapponesi e britanniche (e chissà quante altre) scricchiolano minacciosamente, Putin, raggiunto lo strapotere del gas e archiviata la paura di Chernobyl, lancia un programma di 20 nuove centrali e inaugura la costruzione della prima centrale galleggiante, nonché di una nuova società nucleare statale concepita per rivaleggiare nel mondo.
A fronte dei faraonici programmi nucleari bisogna osservare che l’uranio in natura è tutt’altro che inesauribile. Se si analizzano gli enormi investimenti dell’industria nucleare, si ha l’impressione che non vi sia proprio nulla di alternativo, o nuovo, rispetto al petrolio: anche le contraddizioni sul campo sono le stesse, in Nigeria si lotta contro lo sfruttamento dell’Agip, nel confinante Niger contro lo sfruttamento delle miniere di uranio della francese Areva.
E qui viene la mossa abile e repentina di Sarkò, che aggiunge un altro tassello alla sapiente trama che sta tessendo, sul piano interno e internazionale, per un reinserimento a tutto campo della Francia, che investe massicciamente nel nucleare, «civile» e militare: rilancio degli interessi nucleari francesi, rimettendo in pista Gheddafi (e in un angolo l’Italia) e aprendo agli arabi, una lauta vendita di armi a Tripoli, rompendo l’embargo, per 300 milioni (25 % Finmeccanica), incassando una commissione d’inchiesta con un aplomb che i nostri politici mai si sognerebbero.
I timidi passi dell’Italia
Più difficile vedere un disegno del Papa. A meno che il processo ci fissione del nucleo, con il neutrone e i prodotti non sia una metafora moderna per la Trinità? C’è una stonatura tra la battaglia contro il modernismo e il relativismo, e il sostegno a questa tecnica, fondata sulla relatività.
Anche il Papa, naturalmente, ben si guarda dal denunciare l’accumulo nell’atmosfera terrestre di livelli di radioattività, che non sono certo estranei all’epidemia di tumori che anche l’Oms segnala: negli Usa si continua a trovare stronzio-90 nei denti e ossa dei bambini residenti nei pressi di centrali nucleari, come lo si trovava ai tempi dei test nucleari nell’atmosfera (e lo denunciano le popolazioni degli atolli del Pacifico, dove avvenivano i test).
Anche se in Italia una ripresa del nucleare non è all’ordine del giorno per lo smantellamento delle strutture e le competenze dopo il referendum del 1987, ad ogni buon conto l’industria affila i denti, partecipiamo alla progettazione del reattore francese Epr, l’Enel privatizzato compra liberamente ferri vecchi nucleari all’estero (con relative scorie), e il Senato registra la resistibile approvazione di due emendamenti della destra al ddl energia, sull’installazione di impianti a carbone e nucleari, e la promozione di società italiane nel settore.
È necessario riportare un dato, su cui i nuclearisti mistificano sempre, e gli altri non rispondono adeguatamente: nel 2006 risultava una potenza elettrica installata in Italia di 88.300 Mw a fronte di una potenza massima richiesta di 55.600 Mw. Il fatto che siamo costretti a comperare energia elettrica dall’estero è una favola. Che abbiamo un sistema inefficiente e dirigenti incapaci una realtà: che il nucleare aggraverebbe.