Dada, l’arte del rifiuto. L’improvvisazione contro tutti e tutto

Sull’etimologia dell’espressione Dada è inutile spremersi le meningi. Semplicemente non c’è. Hans Arp (uno dei padri del movimento) sosteneva che il termine venne pronunciato per la prima volta al Caffè Terrasse di Zurigo da Tristan Tzara (altro padre spirituale del gruppo) il 18 febbraio 1916. L’incendiario intellettuale moldavo (Moinesti 1896 – Parigi 1963) raccontava di aver scovato il termine per caso nel dizionario Larousse, fra le pagine entro le quali casualmente era scivolato un tagliacarte proprio dove questa paroletta tagliente-irriverentedivertente e, vedremo, esplosiva come una bomba a mano era segnalata. E’ Tzara stesso che ne denuncia l’assenza di significato, a parte l’utilizzo fattone dalla tribù africana dei Kru che con questa parola indicano la coda della vacca sacra, a parte l’assonanza con la “tata” della nostra tradizione e il dada che in russo significa due volte sì.
Era giusto peraltro che la parola fosse incontaminata, come una tovaglia nuova di zecca perché il movimento, l’Avanguardia, a cui dette il nome non aveva rapporti con il passato. Anzi con il Passato e il Modernismo ruppe tutti i ponti, denunciandone l’insopportabilità, il conformismo e la soggezione alle convenzioni borghesi. Dada fu un pensiero, prima ancora che un gruppo e un movimento, che gridò ai quattro venti il suo essere “contro tutto e tutti”. Contro la letteratura, contro la poesia, contro l’idea del bello e la concezione dell’artista-demiurgo e ispirato da dio, contro la perfezione, contro l’eterno stabile o “ritornante”. Contro le avanguardie storiche, persino, che pure esprimevano il massimo dell’energia innovativa per il tempo (parliamo dei primi due decenni del secolo scorso). «Basta con le accademie cubiste e futuriste, laboratori di idee formali», diceva Tzara, denunciando la discontinuità anche con il Futurismo. Quest’ultima avanguardia, infatti, sorta solo pochi anni prima, pur condividendo la furia iconoclasta dei dadaisti, perseguiva un suo pensiero estetico: il dinamismo plastico cantore delle meraviglie della meccanica moderna e della velocità. Perseguiva un suo pensiero politico elitario e bellicista.
Dada era contro ogni estetica, contro ogni banalizzazione positivistica sulle magnifiche sorti e progressive della modernità. Era contro il principio di disciplina, di gerarchia e autorità. Dada era aconfessionale ed anarchico. E soprattutto era contro la guerra. E’ impossibile capire il significato di questo ciclone artistico e culturale se non ci si riporta al particolare momenti in cui nacque, i tempi sanguinosi ed orribili della prima guerra mondiale. La “comare secca” che aveva seminato stragi ed orrori fino ad allora mai visti in tutta Europa. Il ripudio della guerra era il tessuto connettivo che teneva insieme le cellule di un tessuto fatto di anarchia, individualismo e ribellione. Che si trattasse di un sentimento comune a molti è dimostrato dal fatto che la rivolta culturale che produsse il movimento esplose contemporaneamente in posti diversi e lontani: Zurigo, New York per poi estendersi in Germania, in Francia e in buona parte dell’Europa. A Zurigo fu il Cabaret Voltaire il luogo di incontro destinato a divenire memorabile dove si incontravano, oltre a Tzara e Arp, Hugo Ball, Marcel Janco, Richter e Hulsenbeck, intellettuali e artisti che non volevano solo “imboscarsi” per fuggire alla guerra, ma alla guerra volevano reagire nel modo più radicale e liberatorio. A New York i nomi furono quelli di Picabia, Man Ray, Duchamp.
Quest’ultimo artefice della rivoluzione più profonda della storia dell’arte di tutti i tempi – dopo quella di Caravaggio – la rivoluzione dei readymade, gli “oggetti di uso comune” destinati a sconvolgere assetti linguistici e formali consolidati da centinaia di anni. La grande esposizione, “Dada”, curata da Laurent Le Bon, e allestita meticolosamente presso il Beaubourg rappresenta lo sforzo di raccogliere e catalogare una parte cospicua dell’enorme mole di documenti ed opere che il prolificissimo movimento seppe produrre. La collaborazione con la National gallery of art di Washington (nella quale la mostra sarà trasferita dal 19 febbraio all’11 settembre), e con il Moma di New York ha consentito di fare le cose in grande, molto in grande. Anzi, se c’è un’osservazione che rispettosamente può essere avanzata (ci riferiamo al rispetto che merita un’impresa titanica) è che il numero di reperti ordinati con cartesiana precisione in 38 box, senza considerare l’ambiente introduttivo e la Dada Galerie, è talmente grande da produrre quasi inevitabilmente, complice la grande folla sempre presente, uno spaesamento più o meno accompagnato dai sintomi tipici della Sindrome di Stendhal. Insomma, si potrebbe dire che questa imponente mostra sia piegata sulle ragioni di quel sistema che i dadaisti avrebbero voluto far saltare in aria. Ragioni di sistemazione tassonomica e di natura commerciale evidentemente. Resta il fatto che poter ammirare la ricostruzione di ambienti tipici del Cabaret Voltaire, piuttosto che quelli parigini, newyorchesi e tedeschi è più unica che rara. Come quella di vedere da vicino la famosa Fontana di Duchamp (il celeberrimo orinatoio capovolto) e gli altri suoi “oggetti di uso comune”, le invenzioni di Picabia, le opere polimateriche di Arp, le immagini fotografiche di Man Ray ottenute senza macchina da presa (rayographs), i lavori pre-surrealisti di Max Ernst e ancora le decine e decine di opere di Richter, Eggeling, Grosz, Schwitters, Hausmann e tanti altri.
Quello che resta alla fine nella testa è una gran confusione che tuttavia non sembra estranea a quelle che pensiamo dovevano essere atmosfere dadaiste. Queste atmosfere, infatti, fecero programma di lavoro ricerca del caos e dell’improvvisazione, rifiutando qualsiasi progettualità in cambio un’idea di libertà insofferente a qualsiasi fine ultimo o intermedio. Pur senza negare la potenza eversiva e liberatoria di movimento, non possiamo, tuttavia, non nutrire una riserva. Quella che in qualche misura il Dadaismo, e in particolare il pensiero di Duchamp, abbiano, involontariamente, materiale (opere e soprattutto idee) prezioso e abbondante usato per “giustificare” corso dei decenni la produzione opere completamente disinteressate all’idea di qualità, all’idea di valore. Con lo sviluppo caotico e impetuoso della tecnologia, del mercato globale del liberismo spregiudicato bellicista (tutte cose che nemmeno Duchamp poteva prevedere) il caos produttivo Dadaismo si è trasformato nell’ideale terreno di cultura un’arte che spesso, al d’oggi, è la brutta copia pubblicità.