Da un nuovo produttore un nuovo consumatore

Dobbiamo proprio preoccuparci se il Pil ha smesso di crescere? Oppure dobbiamo cogliere nella decrescita economica una preziosa occasione per un radicale mutamento del modello di consumo in senso ecologico e comunitario? Questi sono gli interrogativi di fondo che gli articoli di Giovenale e di Paolo Cacciari hanno aperto sulle colonne di questo giornale.
Per confrontarci utilmente su di essi occorre in primo luogo chiarire bene di cosa parliamo. Stiamo conducendo una discussione in merito ad ipotetici modelli ideali di organizzazione sociale oppure parliamo dell’oggi, di quel “movimento reale che cambia lo stato delle cose esistenti”? Dico subito che se il terreno di confronto è il primo mi sembrerebbe poco interessante, a meno che non si entri nel merito delle modalità storiche di transizione che possono concretamente condurci dal modello reale in cui viviamo (quello capitalistico di mercato) al modello ideale che auspichiamo (socialista, o che altro?). Ma se così fosse equivarrebbe a discutere di quali azioni politiche dobbiamo compiere oggi, nelle concrete circostanze in cui ci troviamo ad operare.

Queste concrete circostanze vedono l’Italia e, sia pure in minor misura, l’Europa in una situazione di prolungata stagnazione economica, mentre altre zone dell’economia mondiale (Cina e Usa in testa) hanno il vento in poppa. Una delle ragioni che spiegano la crisi italiana ed europea è data dalla cronica insufficienza della domanda interna (consumi pubblici e privati, investimenti), conseguenza diretta delle politiche restrittive imposte dal Trattato di Maastricht. Questa situazione macroeconomica si traduce sul piano sociale in un razionamento di massa dei consumi per le classi lavoratrici, a causa del calo dei salari reali, della disoccupazione e della precarietà, della riduzione del welfare, mentre sul versante opposto della scala sociale aumentano i consumi opulenti di lusso e l’accumulazione di ricchezza. La riduzione aggregata dei consumi, descritta dalle statistiche ufficiali, non è quindi socialmente neutra ma nasconde profonde differenziazioni di classe. Una parte sempre maggiore della popolazione italiana ed europea è costretta a rinunciare a soddisfare bisogni che in passato potevano essere catalogati come storicamente necessari.

Penso che tutti noi concordiamo sul fatto che non c’è nulla di cui rallegrarsi da questa situazione e quindi, quando leggiamo i dati sulla riduzione dei consumi, il nostro pensiero vada immediatamente al pensionato, al giovane precario, all’operaio o al cassintegrato che non sanno più cosa inventarsi per arrivare alla fine del mese. Penso anche che nostra comune aspirazione sia quella di rendere la vita di questi soggetti sociali meno sobria e austera di quella che oggi, loro malgrado, sono costretti a vivere. I loro redditi e i loro consumi devono quindi aumentare attraverso una grande operazione redistributiva, premessa e non, come per troppo tempo si è predicato, conseguenza di una futura ripresa economica. Sulle modalità, anche fiscali, attraverso cui attuare tale redistribuzione, su cui si è soffermato l’articolo di Cavallaro su Liberazione di domenica, sarà opportuno ritornare in seguito, quando avremo chiarito le finalità generali della nostra proposta di politica economica.

Il punto che forse suscita qualche distinzione tra di noi è relativo a quali consumi debbano aumentare. Quelli pubblici o quelli privati? Detto in altri termini, l’aumento del reddito per i ceti popolari deve avvenire in forma diretta, monetaria, oppure attraverso una estensione dei diritti e dei servizi collettivi? In realtà, questa contrapposizione tra consumi pubblici e consumi privati è in grande misura soltanto apparente. Infatti, l’aumento della protezione sociale e della fruizione universale dei beni comuni produce automaticamente un aumento dei redditi monetari disponibili, perché libera risorse oggi impiegate nell’acquisto sul mercato di quei beni e di quei servizi, a meno di non pensare che la maggiore spesa pubblica debba fiscalmente gravare sui redditi popolari. E, poiché la propensione al consumo è tanto maggiore quanto minore è il livello del reddito, una politica redistributiva, comunque attuata, produce un incremento del livello aggregato dei consumi privati.