La bozza costituzionale, approvata da sciiti e curdi senza l’appoggio sunnita, chiama in causa il ruolo del paese arabo nel contesto regionale. Le pressioni di Bush e il richiamo dell’islam
Lo sciita e il curdo si strizzano l’occhio esprimendo reciproca soddisfazione per il raggiunto accordo sulla nuova Costituzione, nonostante i ritardi accumulati e nonostante l’intesa sia stata possibile solo per la genericità del testo sui punti chiave, tale da lasciare adito a futuri ulteriori dissensi e contestazioni. Oltretutto nemmeno tutti gli sciiti sono d’accordo, il movimento radicale di Moqtada al Sadr rifiuta ad esempio la soluzione federalista che sta a cuore all’ayatollah al Sistani e che fa invece temere ai sunniti la disintegrazione dell’Iraq come stato unitario. Ma il problema – su questo e su altri punti dell’intesa, come quello relativo al ruolo dell’Islam nella legislazione e nella vita civile – non investe soltanto i rapporti di forza interni fra le varie comunità etnico-religiose, tra le diverse forze politiche e tra resistenti e collaborazionisti, ma chiama direttamente in causa il ruolo del “nuovo” Iraq nel contesto regionale, in un quadro già reso a dir poco precario dalle disinvolte iniziative ed esternazioni del presidente americano George Bush. Il capo della Casa Bianca infatti si è affrettato a esprimere il suo plauso per l’accordo, guardando non tanto ai contenuti quanto ai tempi, cioè al sostanziale rispetto di quel “calendario istituzionale” con il quale cerca – con sempre minor successo – di contenere in casa sua le proteste contro la guerra che si stanno allargando a macchia d’olio; ma guardando soltanto al possibile risultato immediato, di breve termine, nel cortile di casa rischia di non accorgersi che la strategia perseguita a Baghdad e dintorni potrebbe metterlo domani di fronte a nuovi problemi e a nuove difficoltà: tanto per esemplificare, un allargamento verso ovest dell’influenza di Teheran proprio quando al potere ci sono i “duri” di Ahmadinejad e di Khamenei e un inasprimento dei rapporti con Ankara che non ha mai digerito il flirt tra Washington e i curdi del nord Iraq.
Cominciamo proprio da qui. Come è noto, il sostegno garantito dagli Usa (e dalla Gran Bretagna) dal 1991 al 2003 al regime di fatto dei partiti curdi nel nord e alla loro milizia dei peshmerga (che ora verrebbe addirittura istituzionalizzata dalla carta costituzionale) aveva talmente scontentato la Turchia da indurla a negare alle forze americane il transito sul suo territorio per invadere l’Iraq, costringendo così il comando Usa a puntare tutte le sue carte sull’offensiva del sud e impiegando così forse qualche giorno di più per arrivare a Baghdad. Bush naturalmente non ha gradito, tanto più da parte di un primo ministro islamico, sia pure moderato, come Erdogan; e pur evitando polemiche o peggio rotture perché Ankara è strategicamente troppo importante, un po’ di ruggine tuttavia è rimasta. Ora la genericità del testo della Costituzione irachena – dato e non concesso che venga approvata – lascia del tutto indeterminato che cosa e come sarà lo “Stato federato” curdo nel nord e consente così ai partiti curdi, almeno potenzialmente, di rilanciare eventualmente le loro aspirazioni separatiste; e questo avviene proprio mentre Erdogan si fa promotore di inedite aperture sulla questione curda, ammettendo per la prima volta in modo esplicito l’esistenza e incassando dal Pkk la proclamazione di una nuova tregua, a tutto beneficio del laborioso processo di adesione della Turchia all’Unione europea. In una fase così delicata, un rilancio del separatismo in Iraq potrebbe risvegliare anche al di là del confine aspirazioni ormai accantonate e rischierebbe comunque di intorbidire le acque; e i turchi non sono certo gente disposta a incassare colpi senza reagire.
Se ci spostiamo all’altro estremo, nel sud sciita, i problemi cambiano in parte natura ma non appaiono meno seri. Gli esponenti della comunità sunnita, ma anche gli esponenti laici della tradizione politica irachena che hanno governato il Paese sia sotto Saddam che prima di lui, temono che uno “Stato federato” di Bassora governato dagli uomini di Al Sistan finisca inevitabilmente per diventare una sorta di appendice dell’Iran post-khomeinista, con prevedibili ripercussioni anche a livello del governo federale centrale dove l’asse sciiti-curdi è determinante. E’ vero che in passato gli sciiti iracheni si sono sempre mostrati meno integralisti dei “fratelli” iraniani e non hanno mai propugnato (almeno ufficialmente) uno Stato teocratico di stampo khomeinista; ma parliamo appunto del passato, di quando cioè gli sciiti erano di fatto esclusi dal potere e discriminati. Oggi, con le leve del comando già nelle mani, potrebbero cedere alla tentazione: Sistani fra l’altro è di nazionalità iraniana, nato 73 anni fa a Mashhad, ed anche le Brigate al Badr (la milizia sciita che fa da contrappunto ai peshmerga curdi) è stata a suo tempo addestrata e armata in Iran. Il neo-presidente di Teheran Ahmadinejad, deciso a rivalutare gli ideali originari del khomeinismo, è già orientato a chiamare a raccolta gli sciiti della regione, e in primo luogo quelli dell’Iraq, del Libano e dei Paesi del Golfo; e i problemi che ha incontrato negli ultimi giorni nella formazione del suo governo (il parlamento, sia pure con una maggioranza di conservatori, ha contestato la scelta di almeno dieci dei ministri, anche se è difficile che si arrivi a un voto di non fiducia) potrebbero indurlo, secondo un metodo ben noto, ad alzare la posta verso l’esterno. Plaudendo oggi all’operato dei suoi alleati (se così possiamo chiamarli) in Iraq, il presidente Bush rischia di trovarsi domani con un conflitto sul confine turco a nord e una estensione dell’influenza iraniana a sud. Come coronamento dell’attuale disastro iracheno sarebbe davvero un bel risultato.