Da Sanguineti in punta di lingua

La notte di capodanno del 1951 il poco più che ventenne Edoardo Sanguineti si siede a tavolino e con la onnipotente spavalderia della giovane età comincia a scrivere una poesia cui consegna il compito di inaugurare una stagione nuova, anzi addirittura di aprire la seconda metà del Novecento, operando una cesura definitiva con il retour à l’ordre del movimento ermetico. Il tempo gli darà ragione: i versi di Laborintus («composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis / riposa tenue Ellie…»), che verranno poi pubblicati per Magenta sotto l’egida di Luciano Anceschi nel 1956, segneranno davvero – così come era nelle cabalistiche intenzioni del giovanissimo poeta – un punto di non ritorno e saranno il segnale dell’arrivo sulla scena letteraria italiana di quella neoavanguardia, la cui onda lunga ha marcato, dall’antologia dei Novissimi del ’61, fino ai giovani seguaci del Gruppo ’93, tutta la seconda parte del ventesimo secolo.
A più di cinquant’anni di distanza, è lo stesso Sanguineti a rievocare quella notte lontana, quel progetto «un po’ delirante», sotto la voce «esordi» dell’Abecedario che DeriveApprodi gli ha di recente dedicato sulla scia dell’inatteso successo dell’Abecedario di Gilles Deleuze, che la stessa casa editrice aveva mandato in libreria lo scorso anno. E come per Deleuze, anche l’alfabeto secondo Sanguineti si scandisce per suoni e per immagini: accanto a uno smilzo libretto in cui la curatrice Rossana Campo ha raccolto alcuni dei testi più significativi del poeta genovese, il nucleo centrale dell’opera consiste infatti in due dvd che contengono una lunga (oltre cinque ore) videointervista nel corso della quale Sanguineti, sollecitato man mano dalle domande della scrittrice, riorganizza il proprio universo personale – ma, ancor più, culturale e politico – in ordine alfabetico dalla A di «avanguardia» fino alla Z di «zero». Saldando sempre, in una sorta di monologo che si dipana sullo sfondo di un piccolo studio ingombro di carte (quanto di più lontano da un tradizionale set televisivo si possa immaginare), schegge autobiografiche e analisi critica, intrecciando ricordi della propria vita e riflessioni sulla storia e sulle idee che hanno segnato il ventesimo secolo e l’inizio di questo nuovo millennio.
Una scelta, quella di ricostruire la personalità letteraria di Sanguineti attraverso la parola detta, e non scritta, che a prima vista potrebbe apparire contraddittoria, o comunque legata alla crescente diffusione dei nuovi media, ma che trova invece riscontro in quella «prima persona tutta parlante e niente scrivente», «che sia lingua e non penna», che Sanguineti rivendica per sé e di cui nello stesso Abecedario parla alla voce «oralità». Ancora fedele alla sua rivolta giovanile contro «i poeti che pensano alla pagina scritta e vorrebbero un verso muto e sordo», l’autore di Ideologia e linguaggio afferma, insieme a Tristan Tzara, che «il pensiero si forma in bocca» e ricorda come la letteratura nasca – e di fatto prepotentemente resti – orale.
Osservazioni di risoluta modernità, da leggere (anzi, da ascoltare) insieme a quanto Sanguineti dice per esempio, in apertura di intervista, alla voce «avanguardia». A Rossana Campo che maliziosamente gli ricorda alcuni suoi versi («a un poeta ritrovato ho rivelato che ormai per lui per me resta un nodo da sciogliere, fatale: sapere bene come scrivere male»), il poeta risponde che sì, per scelta deliberata «l’artista d’avanguardia è uno che dipinge male, che scrive male, che fa film “non ben fatti”», fuori dalle convenzioni e dalle convinzioni consolidate. E a questo proposito, alla C di «comunismo», dopo avere sottolineato che «oggi chi lavora al computer rappresenta meglio la posizione dell’operaio e dello sfruttato» e che «il proletariato a livello mondiale è il novantotto per cento della popolazione, ma non sa di essere proletariato», Sanguineti non teme di rispolverare il vecchio – e oggi spesso dimenticato – ruolo dell’intellettuale, che è quello di «favorire la ripresa di una coscienza di classe», aggiungendo a scanso di equivoci di ritenere questa funzione il suo «compito personale». Così che le cinque, e assai godibili, ore dell’Abecedario finiscono per essere non solo l’autoritratto di uno dei maggiori poeti italiani contemporanei, ma anche un utile antidoto alle infinite ore di programmazione banale cui la televisione ci ha purtroppo abituato.