“Mediterraneo, mare di civiltà”. E’ dedicato tutto al “mare nostrum”, nel senso del “luogo comune”, l’ultimo numero di “Notizie internazionali”, il bollettino bimestrale della Fiom-Cgil, che in questo modo ha voluto dare il suo contributo ai lavori del convegno “Medlink-intrecci mediterranei”, che si è tenuto a Roma dal 24 al 26 di novembre 2006.
Notizie internazionali fa il punto su “lavoro e diritti” nella «cornice mediterranea», come scrive Alessandra Mecozzi, responsabile Ufficio internazionale della Fiom, attraverso un dossier dedicato ai paesi che vanno da “Rabat a Lubiana”. Un lavoro ponderoso che occupa più di metà delle sue ottantacinque pagine nella forma di un dossier a cura di Bernardino Andriani. «Alleanze subalterne tra governi corrotti e autoritari con il governo degli Stati Uniti – scrive la Mecozzi nell’editoriale di presentazione – sono sottoposte alle pressioni e alle sfide di chi reclama riforme e democrazia: in un’area dove i conflitti armati sono e sono stati negli anni recenti così diffusi, e dove invece il conflitto sociale è il più delle volte represso, i regimi autoritari devono confrontarsi con nuove spinte per la democrazia, nuovi soggetti sociali e politici emergono: è pensabile l’apertura di un dialogo politico con essi?». «E’ difficile – continua Mecozzi – ma oggi ha nuova vitalità, la lotta per i diritti, in paesi con regimi repressivi, come è il caso del Maghreb o in Egitto – dove è appena nato il movimento “Kefaya-basta!” -; ancora più complessa nei paesi attraversati da anni da occupazioni e violenza armata, come quella in Israele – nella cui società pure si fanno avanti tentativi di nuove organizzazioni sociali, Assaf Adib, Wac – , in Palestina – nascono a Gaza i comitati indipendenti dei lavoratori, accanto al sindacato storico Pgftu in una situazione socialmente ed economicamente catastrofica come documenta ampiamente il rapporto delle Nazioni unite sui diritti umani – e il Kurdistan turco, in cui ancora una volta viene lanciata una dichiarazione di “cessate il fuoco” unilaterale e la richiesta di una soluzione pacifica e democratica. Anche in Turchia, che pure è entrata nel percorso negoziale per accedere all’Unione europea, non certo un esempio in tema di rispetto dei diritti umani, emerge la questione delle violazioni dei diritti del lavoro e sindacali». Il dossier è una preziosissima fonte di informazione e di documentazione. L’attività sindacale è quasi generalmente accettata in linea di principio in tutti i paesi analizzati ma di fatto ostacolata sia attraverso una legislazione piena di cavilli burocratici ed estenuanti percorsi autorizzativi, oppure approfittando della classica situazione del sindacato unico di regime, sia attraverso ostacoli concreti e forti dosi di repressione.
L’elemento interessante da sottolineare è che la quasi totalità delle realtà economiche nazionali del mediterraneo vedono una forte presenza di imprese e multinazionali che hanno il loro quartier generale in Italia. E’ il caso della StMicroeletronics che ha in Marocco (Rabat) un centro di progetto e sviluppo di circuiti integrati ed occupa più di 170 lavoratori. Nell’estate scorsa la StM, che in Italia passa come una delle imprese più “aperte” e “democratiche”, si è resa protagonista di un vero e proprio licenziamento ritorsivo a danno di un gruppo di delegati sindacali regolarmente eletti dai lavoratori. Fuori dalla StM sono stati messi il segretario generale Rachid oukhari e Nabil Chiadmi, un altro membro del direttivo. Più o meno la forte situazione di repressione diffusa esiste in Algeria, dove la libertà di associazione è violata con forte frequenza. Per difendere il proprio diritto di sciopero gli insegnanti hanno intrapreso una lotta che va avanti dal 2005. Poi, certo, ci sono i casi limite, come quello della Libia, dove non solo non vi è libertà di associazione, ma l’unico centro organizzativo presente (Gtufw) è di fatto sotto lo stretto controllo del governo. Controllo esclusivo sul “sindacato unico” anche in Egitto (così come in Siria), dove il diritto di sciopero è limitatissimo e dove chi decide un’azione di lotta viene indicato dalla stampa come «traditore». Anche in Israele il diritto di sciopero è solo teorico perché da una parte deve comunque sottostare alle misure di “emergenza” e nella quasi totalità dei casi non viene riconosciuto di fatto ai lavoratori palestinesi. Anche in via di principio i sindacati palestinesi hanno forti limitazioni.