Da cento anni alla conquista dei diritti

La storia del sindacato italiano affonda le sue radici nella storia dell’associazionismo operaio nelle sue diverse forme cooperative, mutualistiche e di resistenza che, all’indomani dell’unità d’Italia, elaboravano un’ideologia autonoma volta a legittimare l’importanza della
solidarietà e del riscatto sociale verso i ceti più umili con la rivendicazione dei diritti connessi al lavoro. Mentre i primi, deboli processi di industrializzazione, con la loro potenziale carica di conflittualità, cominciavano a percorrere le zone più avanzate del Paese l’associazionismo mutualistico e, in parte, il movimento di resistenza rimasero ancorati ai loro classici principi solidaristici, al carattere particolaristico, ad una certa fragilità organizzativa accompagnata da una diffusa debolezza finanziaria. Le società di Mutuo soccorso e le Cooperative scontavano l’impossibilità di rappresentare, in atto o in potenza, una possibile delimitazione della tradizionale articolazione del potere politico, economico e amministrativo: di fatto rappresentavano un associazionismo protosindacale anche se favorirono lo svilupparsi
dei primi segni di riconoscimento di una identità, di una comune condizione di indigenza e sfruttamento, insieme alla presa di coscienza
dell’estraneità e dell’autonomia dei lavoratori all’interno della società e dello Stato liberale. Un tipo di associazionismo che si traduceva nell’apoliticismo, nel rifiuto di ricorrere allo sciopero e nell’assenza di una impostazione rivendicativa; inoltre, esso era pervaso da spirito
filantropico e da un’etica interclassista. Al contrario, il movimento di resistenza, basato sulle Leghe, sulle Camere del Lavoro e sulle Federazioni di mestiere, che si venne formando tra anni Ottanta
e Novanta dell’Ottocento, esprimeva già un carattere potenzialmente contrattuale. Con la nascita delle Camere del Lavoro, organizzazioni orizzontali, e delle Federazioni di Mestiere, organizzazioni verticali, con la loro attività di coordinamento burocratico e di omogeneizzazione contrattuale per aree, mestieri e settori produttivi, si delineò la specifica attività e le funzioni proprie di un modello sindacale di relazioni industriali; con questi organismi, espressione mediata dei lavoratori, si inaugurò il problema della rappresentanza economica dei ceti
produttivi, si formò l’esigenza della generalizzazione uniforme del sistema contrattuale nell’assunzione e gestione della forza lavoro, si avviarono contatti formali e sistematici con le istituzioni pubbliche e con le prime associazioni di imprenditori. Si avviò, in sintesi, la fase della legittimazione dell’organizzazione sindacale all’interno delle istituzioni politiche e giuridiche dello stato liberale e del nuovo sistema di produzione meccanizzato incentrato sulla fabbrica della prima rivoluzione industriale.
La resistenza violenta dello stato alla crescita degli organismi sindacali fino all’eccidio milanese del 1898 e allo sciopero generale cittadino di Genova del 1900, primo nella storia d’Italia, sancì l’irreversibilità degli organismi sindacali camerali e federali e la loro espansione a livello settoriale e territoriale. La diffusione delle strutture camerali e federali,
protagoniste del lungo ciclo conflittuale del 1901-1902 e del primo sciopero generale nazionale del 1904 contro gli eccidi proletari, pose un oggettivo problema di coordinamento nazionale. Tale percorso porterà alla nascita della Confederazione Generale del Lavoro, con Rigola primo segretario, al congresso di Milano del 1906. La nascita della confederazione introduceva un elemento di profonda e dirompente novità, anche alla luce della grave e persistente crisi che da alcuni anni aveva colpito la rappresentanza politica dei lavoratori nella sua espressione partiticoparlamentare, culminata nel fallimento del patto tra
Turati e il Governo liberale di Giolitti. La Cgdl esprimeva la rappresentanza generale e la unificazione rivendicativa del mondo del lavoro in un organismo di sintesi degli interessi economici
collettivi di fronte allo stato e alle organizzazioni padronali, che di per sé costituiva un nuovo elemento politico nello scenario della società e dello Stato nazionale. In effetti, tale ruolo si manifestava già apertamente con la definizione di una piattaforma politico-programmatica autonoma nei confronti delle forze politiche, delle istituzioni e tramite la rivendicazione della contrattazione collettiva come nuovo modello delle relazioni tra le forze sociali. Il sindacato confederale era in grado di elaborare un ricco programma di riforme sociali, politiche e legislative volte ad allargare e garantire la tutela del lavoro e capace di prefigurare una vera e propria trasformazione in senso laburista della confederazione stessa: il progetto di creare un partito del lavoro, diretta espressione del sindacato, sviluppato dalla CGdL tra i congressi del 1908 e del 1912, sebbene in ultima istanza fallito, sottolineava la dimensione politica della nuova organizzazione sindacale, sempre più capace di inserirsi negli organismi e nei corpi consultivi dello stato così da partecipare alla fase elaborativa e a quella del controllo delle politiche riguardanti il mondo del lavoro.
Fu proprio in virtù della nuova natura confederale che assunse l’organizzazione di resistenza dei lavoratori che venne affrontato il rapporto tra strategie rivendicative e prime crisi economiche internazionali e nazionali quali quelle che si susseguono tra il 1907 e il 1911-13. Analogamente la Cgdl si trovò a formulare proposte e a suscitare un’azione di massa per l’allargamento del suffragio, per la modifica della politica economica, per i consumi popolari, per la pace e contro le forti spinte protezionistiche e colonialiste provenienti dagli aggressivi ceti borghesi, permeati dal nazionalismo economico e militare. D’altro canto fu la gravissima crisi sociale sul finire dell’età giolittiana che portò la Cgdl a confrontarsi in maniera non sempre efficace con l’impetuoso formarsi di un ciclo conflittuale nuovo (i grandi
scioperi del 1912-1913 contro la depressione industriale e la settimana rossa del 1914 contro il militarismo) e con l’emergere di un’organizzazione sindacale ispirata ai principi del sindacalismo rivoluzionario (l’Unione Sindacale Italiana, costituita nel 1912).
La prima guerra mondiale, con le sue caratteristiche inedite e le sue ripercussioni sulla vita sociale e produttiva dei principali paesi europei, e l’emergere nell’immediato dopoguerra di un fenomeno politico quale il fascismo, che si qualificava per l’uso sistematico della violenza contro le strutture di rappresentanza dei lavoratori, contribuirono a destabilizzare l’evoluzione confederale. Le proposte per una gestione contrattata della crisi del dopoguerra, salvaguardando i principi liberali, non fu recepita ancora una volta neppure dalle componenti più riformatrici della borghesia politica ed economica. Nitti e per altri versi Giolitti si servirono della violenza distruttrice del fascismo, sperando di metabolizzarlo, depotenziando al tempo stesso la forza contrattuale del sindacalismo confederale. In realtà, come dimostrò l’epilogo del
biennio rosso e dell’occupazione delle fabbriche, il compromesso che la borghesia liberale italiana aveva in mente era ben lungi dallo spessore che ebbe la proposta politico-costituzionale di Weimar; esso si attestò su un abile e furbesco sotterfugio per far rientrare le tensioni del lavoro, ripristinare la tradizionale autorità padronale nelle fabbriche, indebolire politicamente l’insieme delle forze di sinistra politiche e sindacali, aprire lo scenario a quella soluzione nazionalfascista ispirata e gestita dalla monarchia. Come è noto, l’incapacità di allargare le basi oligarchiche dello Stato liberale attraverso un più ampio patto sociale con la rappresentanza dei lavoratori avrebbe portato alla metà degli anni Venti alla dissoluzione stessa delle istituzioni liberali, alla repressione violenta delle libertà e dei diritti statutari e avrebbe imposto con la soluzione autoritaria del rapporto tra Stato e lavoratori l’autoscioglimento della stessa Confederazione Generale del Lavoro nel 1927. Bruno Buozzi, Segretario della Cgdl, non riconobbe alcuna validità a tale decisione e trasformò il Segretariato degli Operai italiani, costituitosi a Parigi, in Confederazione Generale del Lavoro, mentre la componente comunista rimasta in Italia, criticando entrambe le soluzioni, in un congresso tenuto in clandestinità il 20 febbraio 1927 ricostituì la Cgdl d’Italia. Si apriva uno scenario di dura contrapposizione tra le anime socialista e comunista del sindacalismo
confederale che durerà fino ai primi tentativi di tessitura unitaria avviati alla metà degli anni Trenta quando l’esperienza europea dei Fronti popolari contro il nazi-fascismo fornirà la cornice entro la quale rendere possibile un nuovo corso sindacale con l’approdo al “patto per l’unità d’azione” siglato nel 1936.
La guerra e lo sgretolamento del regime fascista, e la maturazione di una nuova coscienza del mondo del lavoro attraverso gli scioperi del 1943-1944 aprivano orizzonti di rinascita del sindacalismo libero e
costituirono il terreno sul quale concretizzare più compiutamente i progetti delineati in clandestinità dai più importanti dirigenti sindacali. Nel 1943-1945, negli anni di crisi della nazione come entità territoriale e di crisi delle sue diverse istituzioni sociali, economiche e politiche, si situò il processo di rinascita del libero sindacato che approderà nel
giugno del 1944 alla firma del Patto di Roma e alla costituzione della Cgil unitaria. Fu un elemento di assoluta novità, in quanto precedentemente non era mai esistita un’organizzazione che raggruppasse forze di ispirazione cattolica, socialista e comunista,
formalmente autonoma dai partiti politici, dallo Stato, dal governo e indipendente dal sistema economico.
L’organizzazione sindacale ricostruita su ispirazione di Di Vittorio, Buozzi e Grandi, rappresentava una grande e autonoma organizzazione di
rappresentanza dell’insieme del mondo del lavoro, comprensivo dei braccianti e dei contadini, degli impiegati dei servizi, dei lavoratori dell’industria ed estesa fino alla massa dei disoccupati. Nell’inedita forma di squilibrio tra dimensione della sovranità del governo nazionale e dipendenza internazionale che accompagnò la sconfitta militare del paese, la Cgil unitaria nasceva come istituzione attraverso la quale, dopo la fase finale della guerra di liberazione, doveva passare la necessaria delineazione della nuova dimensione della legittimazione politica del lavoro e della correlazione tra governo nazionale dell’economia e modello internazionale.
In realtà la Cgil in primo luogo, ma in larga parte anche l’intero movimento sindacale, furono costretti, dalla metà degli anni sessanta in poi, a confrontarsi con una politica pubblica priva di capacità strategiche, oscillante tra clientelismo, uso strumentale della congiuntura internazionale, instabilità crescente del sistema dei partiti nel governo delle istituzioni. Il lungo epilogo della stagione del centro-sinistra e il fallimentare tentativo di sostituirlo con formule neoautoritarie negli anni Ottanta condussero all’esaurimento della prima
repubblica nella drammatica crisi morale, giudiziaria e finanziaria che scuote il paese nei primi anni Novanta. In questo contesto, l’imponente ciclo conflittuale del 1968-1970 che impose il più ampio spostamento mai registrato nella storia italiana di quote di reddito a favore dei salari e del lavoro dipendente assume il valore storico di una possibile alternativa in senso più europeo nello sviluppo della società italiana.
Fu su questa nuova base materiale che si costituì la ritrovata unità federativa del sindacato, passaggio istituzionale fondamentale per
lanciare un grande programma riformatore che stabilizzasse le conquiste contrattuali e monetarie in termini di servizi sociali pubblici,
modernizzasse la pubblica amministrazione, alleggerisse i costi impropri per il sistema industriale.
D’altro canto, il rinnovamento della rappresentanza sindacale consentì anche di allargare i canali della democrazia partecipativa, con il passaggio dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica, convogliando la straordinaria energia del mondo del lavoro nei canali delle strutture sindacali confederali e in primo luogo in quelle delle grandi federazioni industriali. La capacità progettuale e la forza rappresentativa dettero alla Cgil quella autorevolezza che le avrebbe consentito di esercitare insieme la supplenza alla politica in evidente crisi di credibilità e di assumere un complesso ruolo nella coeva gestione della crisi economica che si abbatté sul paese dopo la fine della convertibilità
del dollaro e lo shock petrolifero del 73’, l’esaurirsi del ciclo fordista e l’affermarsi delle nuove compatibilità monetarie europee.
Tale autorevolezza fu spesa anche con una eccessiva fiducia nella sensibilità di comprenderne il messaggio da parte della classe politica e del mondo economico, con la proposta di autolimitazione unilaterale decisa con la svolta dell’Eur. La duplice risposta della classe dirigente a questo forte messaggio di un nuovo patto di coesione per lo sviluppo fu, come è noto, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro, con la
chiusura della politica della solidarietà nazionale e la drastica azione antioperaia e antisindacale promossa dalla Fiat nel 1980. Una pericolosa e dannosa sottrazione alle proprie responsabilità del mondo della politica e delle imprese, il cui drammatico significato appare ancor più evidente se lo si inserisce sullo sfondo del perdurare della violenza terroristica ed eversiva che aveva assunto una propria dimensione politica, unica nelle democrazie occidentali, finalizzata a colpire direttamente, con le stragi, il mondo del lavoro e il sindacato e,
attraverso esso, la democrazia repubblicana. Occorre ricordare, ed è questo il terzo elemento qualificante, che l’autorevolezza e la forza della
Cgil furono impiegate sistematicamente e vittoriosamente per fronteggiare e sconfiggere non solo i singoli atti di violenza, ma soprattutto la regia politica che li ispirava, ponendo sempre le grandi masse lavoratrici e il sindacato a difesa della Costituzione e della democrazia repubblicana, con l’impiego di una strategia politica volta a far presidiare le città e i luoghi di lavoro dai lavoratori e dai cittadini.
Questo ruolo sarà sostanzialmente non compreso e profondamente sottovalutato, nel corso degli anni Ottanta, soprattutto dopo la rottura del patto federativo e il referendum sulla scala mobile, quando si diffondono le ideologie grottescamente neoliberiste che predicano lo
sviluppo economico e la centralità delle imprese senza il sindacato e la politica assume le forme della trasformazione autoritaria dei poteri
dell’esecutivo, svuotando dialettica sociale e ruolo del Parlamento. E tuttavia, al tornante dell’89, la Cgil si presenterà con una autoriforma
nella quale la rivendicazione dei diritti del lavoro e la scelta irreversibile dell’Europa sociale saranno la premessa per una nuova stagione di
protagonismo a fronte della coeva implosione del sistema politico e delle imprese, origine storica e cogente dell’attuale marginalizzazione
economica e internazionale del Paese, premessa della prima vera frattura nella tenuta dello Stato unitario dal Risorgimento in poi.

(hanno collaborato Fabrizio Loreto e Edmondo Montali)