«Cumbres» a Cochabamba

Presidenti sudamericani all’appello, tutti o quasi presenti. Padrone di casa Evo Morales, il presidente indigeno la cui elezione ha aperto l’anno di maggior trasformazione politica dell’ America Latina. Il secondo vertice della Comunità sudamericana delle nazioni ospitato ieri a Cochabamba, in Bolivia, è il più grande spiegamento di presidenti di sinistra nella storia recente del continente e segna l’avvio di un processo di integrazione continentale.
Nel futuro dell’America latina c’è un’Unione sudamericana, sul modello della Ue, che dovrà cominciare dall’energia, con un progetto di collaborazione tra gli organismi energetici dei vari paesi e dovrebbe sfociare nella costruzione del «gasdotto del sud», che porterà gas naturale dal Venezuela all’ Argentina. Nel documento finale c’è la condanna – per la prima volta – dei trattati di libero commercio fatti firmare dagli Stati uniti, e persino la proposta di una moneta unica avanzata dal neopresidente ecuadoriano Correa.
Al vertice di Cochabamba, che si propone di sigillare per il secondo anno un patto di integrazione e collaborazione tra i paesi sudamericani, mancano solo il presidente colombiano Alvaro Uribe, l’ argentino Nestor Kirchner e il presidente uscente ecuadoriano Palacio. I temi in discussione sono principalmente idrocarburi, mercato comune del sud, infrastrutture trans-americane, pensate per le aperture del mercato verso il Pacifico, ovvero vrso la Cina e l’India. Non si nomina «il diavolo nero», detto alla venezuelana, cioè l’America di George W. Bush.
Il momento, qui al sud, è troppo significativo per fare accenni al noioso vicino di casa. Leit motiv è il costante richiamo al rafforzamento politico ed economico della regione per fare fronte alle avances neoliberiste provenienti dal nord.
I presidenti si ritrovano dopo pranzo per una tavola rotonda con Morales moderatore. La parola scivola scorrevole tra Chavez e Lula. Non si trattengono da considerazioni anche i poco allineati Alan Garcia (del Perù) e la ministra degli esteri colombiana. E’ la prima volta che Chavez e Garcia si vedono dal vivo, dopo il diverbio che ha preceduto le elezioni peruviane di aprile (Chavez parteggiava per lo sfidante Ollanta Humala, erano volati insulti e il ritiro dei rispettivi ambasciatori). I due si salutano a denti stretti e non si aggrediscono, com’è opportuno in un vertice che si propone di dare una struttura diversa all’America latina – come suggerisce il logo del vertice, un’ America del sud fatta di corda spessa, intrecciata stretta.
Ma chi fa davvero l’America Latina sono soprattuto i suoi abitanti, i suoi popoli. Caraibici, nativi, campesinos, afro-discendenti, meticci, tutti qui, anche loro, a Cochabamba. Danno vita alla «cumbre de los pueblos suramericanos», un vertice parallelo a quello dei capi di stato per ricordare a questi presidenti, oggi un po’ più amici, che è comunque a loro che devono in fine rendere conto.
Parlano di un continente ancora sotto assedio, ancora in pericolo. Un pericolo ambientale, dato dalla massiccia ingerenza delle multinazionali del petrolio; un pericolo militare con la presenza delle basi militari Usa; un pericolo per la sovranità alimentare, con l’ombra lunga degli ogm; un pericolo per i territori dei nativi, a causa dello scarso rispetto per le convenzioni ambientali dell’Onu; un pericolo come la minaccia della privatizzazione dell’oro bianco, l’acqua. E ne discutono proprio qui, in questa città, che nel 2001 divenne famosa per la difesa coraggiosa del pubblico accesso all’acqua, a muso duro contro la multinazionale Bechtel. Perciò, quest’anno, i due vertici si chiudono con un evento in comune: una festa nello stadio Felix Capriles di Cochabamba, nel cuore della Bolivia che è per definizione il cuore del continente.
La «cumbre de los pueblos» consegnerà alla «cumbre dei presidenti» il resoconto finale delle proprie valutazioni e un manifesto di intenti con cui popoli e governi dovrebbero collaborare. Il manifesto rappresenta una simbolica e diretta consegna della responsabilità di governare, della responsabilità di difendere la gente per cui si lavora, sotto il loro vigile sguardo e diretta presenza. E’, forse anche, il simbolico atto che chiude un anno democraticamente straordinario e apre quella che potrebbe essere un’epoca diversa. Il “cortile di casa” non è più tale.