Culture e generi. Non “meticciato” ma reciproca inclusione

Sono state osservate alcune analogie tra le due tematiche del femminismo e del cosiddetto terzomondismo ed è forse ragionevole estendere l’analogia alle lotte di classe e a quelle ambientaliste. Sia pure con il “beneficio dell’inventario”, si direbbe in gergo notarile, per la mia poca conoscenza di alcuni tra gli autori chiamati in causa e interpretati da Giovanni Leghissa, credo si possa dare un giudizio positivo del suo libro su Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione, Associazione Culturale Mimesis, Milano 2005. La critica parallela, che vi si accoglie e sviluppa, dei Cultural Studies e dei Gender Studies mi induce a qualche riflessione che forse esula in parte da quel contesto e fa ricorso piuttosto ad alcune categorie della dialettica gramsciana: in specie, alla opposizione tra dominatori e “subalterni”, in esito alla quale possono darsi due sintesi (due risoluzioni ”egemoniche”) alternative l’una all’altra, e alla opposizione-distinzione tra elementi ciascuno dei quali può dar luogo a una sintesi equi-compatibile con la sintesi operata sull’altro versante.
Parto dalla questione “terzomondista” e dallo spartiacque storico tra l’imperialismo colonialista, dispiegatosi per circa due secoli (XIX-XX), e l’imperialismo della globalizzazione neocapitalistica, fattosi avanti particolarmente dagli ultimi decenni del XX secolo agli inizi di questo nostro XXI. Il colonialismo consentiva a una parte delle popolazioni europee di invadere e sfruttare direttamente territori altrui, esportandovi alcuni tratti della propria cultura (assumiamo, provvisoriamente, questo termine nel suo più esteso significato antropologico). L’odierna globalizzazione, invece, costringe una considerevole parte di popolazioni “periferiche” immiserite a trapiantarsi nella ricca Europa. Fenomeni consimili si registrano nel continente americano, in specie se si guardi a quel che accade nelle frontiere tra Messico e Stati Uniti. L’eurocentrismo colonialista si ammantava di una presunta missione civilizzatrice, ma di fatto costituiva la versione mitigata di quel razzismo protervo che, nato proprio negli Stati Uniti d’America (più che nella vecchia Europa, il cui antisemitismo poteva apparire un lascito delle ormai concluse guerre di religione), doveva raggiungere la sua forma più aberrante e pervertita nella Germania nazista e nella sua “laica” religione di una superiorità (quasi “super-umana”) del sangue ariano. Nell’odierna globalizzazione, l’eurocentrismo ha ancora due facce: una faccia meno aggressiva, dalla quale traspare il timore che gli immigrati siano portatori delle forme più rudimentali o arretrate della loro cultura nazionale e quindi possano inquinare o contaminare i nostri valori etico-culturali più elevati; un’altra faccia più spregevole, che guarda all’immigrato anche come a un potenziale fuori legge dal quale provengano, anche, minacce al nostro vivere civile (o al lavoro dei nostri connazionali) e sfìde al nostro codice penale.

La faccia meno aggressiva, quella timorosa della contaminazione e di un possibile appiattirsi verso il basso dei nostri livelli culturali europei, cerca una sua giustificazione (“il nostro non è razzismo”) nel distinguere tra il turista giapponese, che mostra di conoscere le opere di Botticelli meglio di un popolano fiorentino, e il lavavetri marocchino che probabilmente ignora chi fossero Averroè e gli altri sommi della sua cultura atavica. Quella giustificazione è per noi inaccettabile perché dissimula una ben diversa distinzione: la distinzione tra chi è ricco (il giapponese) e chi è povero (il marocchino). Ma è una giustificazione che ci può sollecitare a un discorso teorico e a una proposta pratica conseguente.

Sul piano teorico credo che non sia necessario “fare di necessità virtù”: ossia, dalla constatazione dell’inarrestabile e ormai irreversibile coesistenza di diverse nazionalità (di diverse lingue, religioni ecc.), all’interno di ciascuno Stato europeo, far discendere la difesa del cosiddetto “meticciato” come di un valore in sé, o di un valore più apprezzabile rispetto alla “purezza” delle singole culture nazionali. Del resto, ciascuna tradizione culturale ha sempre assorbito altre, precedenti o confinanti, culture e tuttavia le ha investite di una sua peculiare e inconfondibile “tonalità cromatica”. Il discorso vale per la Grecia antica come per la moderna formazione composita della realtà statunitense. Sul piano teorico è forse preferibile, dunque, una formula che si avvicini al concetto, proposto da Edward Said, di “storie che si incontrano, territori che si sovrappongono”. Come possiamo intendere il concetto di una sovrapposizione, nel caso specifico del rapporto tra popolazioni immigrate e nazioni europee ospitanti? Ritengo che ciascuna comunità immigrata debba conservare e anzi coltivare con maggior cura, nelle forme più convenienti, il proprio patrimonio culturale, anche a dimostrazione della possibilità che i più poveri, o i gruppi “subalterni”, siano i meno ignoranti; ma, nello stesso tempo, debba acquisire (nelle sedi idonee predisposte allo scopo) alcuni elementi tra i più rappresentativi della cultura propria del paese che la ospita, anche con questo secondo guadagno dimostrando nei fatti che è falsa l’equazione tra povertà e ignoranza.

D’altra parte, la spoliticizzazione che oggi affligge circa la metà dei cittadini italiani (che si espande nella mia Sicilia e alligna nella moderna Milano come in altre città settentrionali) potrà essere ridimensionata, ne sono convinto, soprattutto con una vasta e paziente e capillare opera di ri-culturazione nella quale la nostra storia civile, nazionale e sociale, si rifaccia tessuto connettivo di una nuova Bildung di più larghi orizzonti per i singoli e per le collettività. Una delle scommesse, almeno in parte, vinte dai comunisti italiani nel dopoguerra riguardava appunto la conquista, da parte di larghe masse subalterne, in specie meridionali, oltre che di un loro senso dello Stato, di una cultura e di una tradizione nazionali che contenessero, insieme, germi di una concezione alternativa. Che quella conquista sia andata abbondantemente perduta anche nei cosiddetti ceti medi dell’odierna Italia globalizzata e che mezza Italia sia presso che spoliticizzata non sono certo fenomeni imputabili all’immigrazione. Sono invece il prodotto, abilmente orchestrato, di un americanismo culturale di bassa lega che, per volere dei gruppi dirigenti politici e imprenditoriali fautori di un neoliberismo non alieno dal populismo, ha sradicato e fatto sparire (quindi tutt’altro che “innalzato”) la vecchia cultura popolare, sostituendola con una sub-cultura commercializzata di origine massmediatica, dispensatrice di cattivo gusto “iper-modernizzato”.

Torniamo al concetto di “sovrapposizione” per precisare che essa dovrebbe rifuggire da ogni dissimmetria. Non abbiamo in mente un “sotto” e un “sopra”, ossia una coltivata e riaffermata identità culturale della singola comunità immigrata che si collochi consensualmente “dentro” la cultura della nazione ospitante. Il rapporto di inclusione dev’essere invece reciproco. Tra due storie culturali, ciascuna può diventare “contrappunto” (Said) rispetto all’altra. Se, per certi aspetti, è bene che l’identità culturale altrui entri a far parte del nostro tessuto di cultura e di civiltà, per l’altro verso, deve accadere il contrario: la nostra concezione della vita e i nostri valori ideali possano trovare un loro spazio ospitale “dentro” la più ampia cornice del vissuto, dell’esperito e del tramandato dei quali la comunità immigrata è portatrice. E quando parlo di “storie culturali” intendo riferirmi, con una maggiore proprietà di linguaggio, a quel che può ancora farsi valere del, per certi versi ormai inattuale, concetto (o “concerto”) delle nazioni già intese come altrettante identità geopolitiche anelanti, in passato, alla “sovranità” su se medesime dapprima, su altre nazioni “inferiori” in seguito.

Come procedere oltre l’Illuminismo? Non solo oltre l’imperativo kantiano, universale benché, o perché, sovrastorico; ma anche oltre le concezioni neo-illuministiche di Rawls (limitarsi a prendere atto dell’intersezione, overlapping consensus, tra due o più dottrine comprensive) di Appel (presupporre una comunità di comunicazione) o di Habermas (confidare in una possibile intesa discorsiva)? Si può ancora una volta reinterpretare Gramsci e il suo concetto di una tensione storica, di una universalizzazione in fieri che, senza deflettere dalla necessaria lotta contro ogni forma di dominio e senza concessioni ai dominatori, muova alla ricerca di una parziale e problematica traducibilità reciproca tra le diverse lingue-culture.

Quali le pratiche conseguenti rispetto a tali presupposti teorici? A mio parere, vi è bisogno di un nuovo associazionismo finalizzato a quell’obiettivo. La singola comunità immigrata dovrebbe costituirsi in organismi territoriali, legalmente riconosciuti, che non siano né sotto il protettorato delle Parrocchie né sotto quello dei partiti e non abbiano soltanto finalità assistenziali ancorché ampliate fino alla necessaria tutela giuridica (e/o finalità di svago, sportive ecc.), ma si prefiggano di incrementare nei soci la conoscenza e, direi, l’amore della cultura nativa, aprendosi nello stesso tempo al confronto con gruppi o con singole competenze capaci di rappresentare, a un livello possibilmente elevato, il patrimonio civile e culturale del paese ospitante. Direi che la reciprocità cui accennavo prima potrebbe avvalersi di alcune pratiche più duttili riguardanti, per esempio, le famiglie dei ragazzi italiani che frequentano le scuole: quelle famiglie sarebbero invitate periodicamente ad ascoltare rappresentanti qualificati delle comunità ospitate e potrebbero in tal modo acquisire di prima mano elementi di conoscenza delle identità altrui al riparo da vieti pregiudizi o da ogni “velo di ignoranza”.

Ho accennato, nell’iniziare questi ragionamenti, alla critica parallela, che nel libro di Leghissa è presentata, dei Cultural Studies e dei Gender Studies.

Mi limito qui a osservare che, anche nel rapporto tra i sessi, vi è stato un passaggio storico significativo: il passaggio da una lunga epoca più accentuatamente patriarcale, nella quale gli uomini, la cui vita attiva si svolgeva principalmente fuori casa, entravano o rientravano in casa da padroni e come colonizzatori nei confronti delle donne, a una fase più recente nella quale si avverte un’apparente inversione, perché le donne, in numero crescente, “migrano” nei luoghi di lavoro che erano e sono appannaggio precipuo degli uomini, ma vi si introducono (appunto) come “migranti”, cioè conservando nella maggior parte dei casi uno statuto, e talvolta anche un complesso, di inferiorità. Aggiungo che vale anche per la questione sessuale il criterio della gramsciana doppia sintesi virtuosa: la “differenza” dovrà approdare, non a un nuovo dualismo metafisico o meta-psichico o meta-biologistico, ma alla reciproca accoglienza nella pari dignità del femminile e del maschile.

La doppia sintesi virtuosa è anche nei voti dell’ambientalismo intelligente. Il rapporto tra gli umani e la natura, “snaturato”, specialmente dal tardo capitalismo, in un distruttivo e auto-distruttivo rapporto di dominio, dovrebbe invece dar luogo alle due distinte sintesi alle quali pensava il giovane Marx: “umanizzazione della natura e naturalizzazione degli umani”. Il comunismo di fine XXI secolo darà attuazione alla formula giovane-marxiana, conferendo lo statuto di beni comuni su scala planetaria, pianificati e garantiti in forme di autogoverno civile, ai frutti della ricerca scientifica o culturale in genere, da un lato, e alle più vitali risorse naturali, sull’altro versante?

Per la lotta di classe, invece, non può esservi una reale riconciliazione. Essa è lotta tra opposti antagonistici. Vi può essere una tentata sintesi conservatrice (la gramsciana “rivoluzione passiva”) o una sintesi rivoluzionaria a pieno titolo. O l’una o l’altra. Le due sintesi non possono “stare insieme”.