Si dice che la vittoria di Cuffaro alle elezioni regionali siciliane debba non poco a come i suoi assessori, nella passata legislatura, hanno gestito il mercato del lavoro. Uno di loro ha spiegato le trentamila preferenze ricevute in modo molto semplice: «Abbiamo stabilizzato sessantacinquemila precari». E al giornalista che gli chiedeva se fare politica significhi soltanto dare un posto nella pubblica amministrazione, ha risposto: «In Sicilia il bisogno principale è il lavoro. E i politici devono dare risposte concrete ai bisogni della gente».
Si dice inoltre che, appena insediato in via XX settembre, il ministro dell’Economia abbia rimproverato a talune amministrazioni regionali (tra cui proprio la Sicilia) di aver sforato i tetti imposti alla spesa corrente, in specie sanitaria. E pare che Cuffaro si sia difeso invocando lo speciale status dell’Isola e comunque eccependo l’assoluta regolarità dei conti (in disavanzo) di un servizio sanitario che può vantare undici autisti e portantini per ogni ambulanza.
Può sembrar strano, ma è questa l’ottica entro cui va collocata la discussione sulla riforma costituzionale e i paradossi di cui è intessuta, con chi vota “no” ad affannarsi a spiegare che si deve comunque riformare la Carta del ’48 e tutti comunque a dire che no, «la prima parte non necessita di modifiche».
Cuffaro è l’ultimo keynesiano. » l’ultimo erede di una tradizione che ha coniugato il solidarismo cattolico con la politica economica e ha usato scientemente i poteri di governo e direzione dell’economia per creare posti di lavoro. Magari in modo clientelare, magari per scavare buche senza nemmeno riempirle, magari per costruire piramidi, ma comunque per dare occupazione (cioè reddito) a chi non ne aveva. Se nel far ciò egli abbia agevolato la mafia lo diranno i tribunali: non è questo che qui interessa. Il punto è che Cuffaro, per la costituzione vigente, è un eversore.
Quale costituzione? Qui sta il punto. Se fosse vero che la prima parte della costituzione del ’48 va bene così com’è scritta, non ci sarebbe bisogno di cambiare la seconda: una breve ricognizione storica mostrerebbe anzi che la centralità del parlamento, il bicameralismo perfetto e la strutturale debolezza degli esecutivi furono concepiti come contraltari rispetto alla decisione di mantenere tale e quale la costituzione economica varata negli anni ’30 (che a sua volta, nella sua pretesa di dirigere l’economia mediante la politica, rinviava direttamente al modello staliniano d’oltrecortina). «Dobbiamo garantire che la politica governi l’economia, ma dobbiamo farlo in modo che ciò che è di pubblico interesse emerga dal confronto parlamentare e non s’imponga per volontà di un duce»: fu questa la preoccupazione dei costituenti, e chi non lo crede vada pure a rileggersi i verbali d’assemblea.
Ora, questa parte della Carta costituzionale non è più vigente. Formalmente, certo, sta ancora lì. Sostanzialmente, è stata abrogata dall’adesione al Trattato istitutivo della Comunità europea, nel testo fissato a Maastricht.
Basta confrontare l’art. 41 della costituzione del ’48 e l’art. 4 del Trattato: l’uno vorrebbe coordinare e indirizzare, l’altro ordina di “lasciar fare”; l’uno vorrebbe perseguire “fini sociali”, l’altro è convinto (come già Adam Smith) che quali siano i fini da perseguire e i mezzi da scegliere «ognuno, nella sua condizione locale, può giudicare molto meglio di qualsiasi uomo di stato o legislatore».
Non sappiamo se abbia ragione Giovanni Sartori a dire che una costituzione non è di destra né di sinistra, ma è certo che la nostra costituzione era keynesiana. Lo confermò la Corte costituzionale quando, con la sentenza n. 1 del 1966, dichiarò che l’indebitamento pubblico era una forma di finanziamento della spesa conforme alle prescrizioni dell’art. 81 Cost. In questo modo, il baluardo del pareggio del bilancio, fortemente voluto da Einaudi per ostacolare le pretese programmatorie dei pubblici poteri, veniva a saltare; Guido Carli se ne accorse e – come riconosce onestamente nelle sue memorie – si diede a difendere l’impresa privata, allora stretta in una morsa: «da una parte, i partiti di governo, orfani ed eredi di Enrico Mattei, che volevano estendere l’impresa a partecipazione statale; dall’altra i sindacati, che reclamavano con forza, e spesso con violenza, porzioni crescenti di quel plusvalore che secondo l’ideologia corrente veniva loro espropriato dai capitalisti». Sic.
Tutto ciò, adesso, è finito: il deficit pubblico è vietato dal Patto di stabilità (salvo che per pagare gli interessi sullo stock esistente di debito: quelle sono rendite finanziarie e non si toccano), il patrimonio industriale e bancario pubblico è stato svenduto, le imprese sono nuovamente al comando dell’economia. Nessuno può più pensare di programmare o dirigere alcunché, anche perché – salvo qualche interessante residuato – non ce ne sono più gli strumenti. Quanto al lavoro, lo danno le imprese: precario e malpagato non importa, «solo le imprese creano vera occupazione», ripetono tutti in coro.
Per questo Cuffaro è un eversore. E per questo la seconda parte della Carta va cambiata: la centralità del parlamento non ha senso nell’ambito della nuova costituzione economica, è solo un impaccio per l’esecutivo e una fonte di spese inutili. Per contro, ristabilito il dominio dei mercati, possiamo permetterci il lusso di un governo forte a piacere: non solo perché non sarà mai tanto forte da imporre a chicchessia cosa produrre e cosa consumare, che sono le uniche decisioni che contano, ma soprattutto perché potrà adempiere ai suoi compiti di guardiano notturno con maggior efficienza. Maffeo Pantaleoni, padre nobile del liberismo italico e senatore fascista del Regno fino al 1924 (perché poi morì), amava dire che voleva uno stato minimo, ma che entro questo minimo godesse di un potere assoluto. Non sappiamo come avrebbe votato al prossimo referendum, ma certo avrebbe firmato il manifesto del prof. Barbera.