Il 26 luglio 1953 è una data destinata a rimanere impressa nella storia della lotta per l’emancipazione del popolo cubano e latinoamericano. Esattamente cinquant’anni fa, l’attacco alla caserma Moncada segnò l’inizio della fine del regime dittatoriale di Fulgencio Batista. Fu l’esordio di un processo, tuttora in corso, di costruzione di una società nuova. Non si trattava soltanto di sconfiggere una dittatura, ma anche di creare un nuovo ordine sociale e politico, fondato sulla giustizia e l’eguaglianza di tutto il popolo.
é una domenica calda, tipicamente tropicale. In pochi avrebbero scommesso su quel manipolo di rivoluzionari, armati soprattutto di coraggio, che si apprestavano ad assaltare una caserma di Santiago di Cuba. Le prime voci parlano di un ammutinamento, di un tentativo di golpe partorito all’interno degli stessi ranghi dell’esercito governativo. Solo più tardi sulle bocche dei cubani comincerà a circolare il nome del capo degli insorti, Fidel Castro Ruz, un giovane avvocato dalle idee radicali legato al Partito ortodosso, espressione della locale piccola borghesia patriottica. L’onore contro il denaro.È
il motto che lega i membri di questa pattuglia. Nella mente, poco marxismo-leninismo e tanta rabbia per le condizioni in cui il prepotente vicino nordamericano ha ridotto l’isola, trasformata in una mecca per giocatori d’azzardo e mafiosi. Credono di potercela fare, fiduciosi nelle potenzialità di un vasto movimento sorto sin dai primi mesi di quell’anno.
I funerali di un giovane attivista svoltisi il 19 gennaio 1953 e, poco dopo, le celebrazioni per il centenario della nascita di Josè Martì si erano trasformati in grandi manifestazioni contro il regime. Il 5 aprile c’era stato persino un tentativo d’insurrezione, abortito subito dopo il mancato assalto all’accampamento militare di Columbia, a Marianao, e seguito da una brutale repressione poliziesca. Ora, colpendo il Moncada, simbolo dell’autocrazia, si tenta un salto di qualità, mirato a far divampare un focolaio che dovrebbe poi estendersi negli altri centri urbani, nelle campagne e sulla Sierra.
Questi buoni propositi si infrangono tuttavia contro la non prevista resistenza dei militari di presidio alla caserma. La forza delle idee e lo spirito rivoluzionario vengono piegati dal fuoco dei fucili di fabbricazione Usa. Sul terreno restano i corpi di buona parte dei ribelli, mentre altri periranno dopo orrende torture. Josè Luis Tasende, Renato Guitart Rossel, Pedro Miret, Jesùs Montan, Abel Santamaria, sono solo alcuni dei martiri, giovani combattenti rivoluzionari convinti di seguire, con quell’azione, l’esempio di Martì. Fidel Castro scampa alla morte, non alla cattura. Ma nella sconfitta può dirsi fortunato: si imbatte in un tenente dalle idee patriottiche che lo conduce direttamente in tribunale e non nelle mani del colonnello Rio Chaviano, uno dei più noti carnefici al soldo di Batista. Nel corso del processo (che lo vedrà condannato prima al carcere duro e poi all’esilio in Messico) Fidel pronuncia un’appassionata arringa di autodifesa. In questa occasione dichiara: “La storia mi assolverà”.
I combattenti cubani trarranno importanti lezioni da questa battuta di arresto. Comprenderanno la necessità di dotarsi di un programma unificante capace di coinvolgere nella lotta contro Batista e l’imperialismo americano ampi strati della popolazione: in primo luogo gli operai delle aziende manifatturiere delle grandi città e i contadini delle immense piantagioni di canna da zucchero, tabacco e caffè, quindi gli studenti e gli intellettuali progressisti. La Rivoluzione giungerà al potere libera da compromessi e interessi – affermeranno dopo aver dato vita al movimento denominato 26 luglioÈ in ricordo dell’assalto al Moncada – per servire Cuba con un programma di giustizia sociale, di libertà e di democrazia, di rispetto delle leggi giuste che riconoscono la piena dignità di tutti i cubaniÈ. Prendendo ad esempio le altre rivoluzioni anticoloniali (quella maoista in Cina di Mao e quella guidata da Ho Chi Min in Vietnam), comprenderanno inoltre la necessità di affinare le tecniche militari e di organizzare un vero e proprio esercito rivoluzionario. Che difatti sorgerà due anni e mezzo più tardi, dopo lo sbarco del Granma, con il nome di Ejercito Rebelde.
Il resto della storia è noto. All’alba del primo gennaio 1959 Batista, ormai isolato in patria e all’estero, è costretto a lasciare Cuba in mano ad una giunta militare provvisoria che propone inutilmente un armistizio ai ribelli. Il 2 gennaio le colonne guerrigliere di Ernesto “Che” Guevara e Camillo Cienfuegos entrano a L’Avana, paralizzata dallo sciopero generale. Sei giorni più tardi, fa il suo ingresso nella capitale Castro, acclamato da migliaia di cubani. La tirannia è crollata, la Rivoluzione ha vinto la sua prima sfida. Il piccolo gruppo della “Moncada2 è divenutato un intero popolo fermamente deciso a prendere in pugno il proprio destino.
A mezzo secolo da quelle giornate, Cuba, se la si confronta con gli altri paesi dell’America Latina, costituisce ancora una positiva anomalia nel “Cortile di casa” degli Stati Uniti. Cuba è un paese orgoglioso della sovranità conquistata a caro prezzo, un paese che vanta conquiste sociali di gran lunga superiori non solo a tanti paesi in via di sviluppo, ma anche a molte società a capitalismo avanzato. Come emerge da una recentissima relazione divulgata dall’Onu che tiene conto della qualità della sanità e dell’istruzione e della lotta contro la mortalità infantile, Cuba continua a occupare uno dei primi posti tra le nazioni a più alto tasso di sviluppo umano, e tutto ciò nonostante il ferreo embargo economico cui l’isola è sottoposta da oltre quarant’anni per volere degli Stati Uniti.
La Rivoluzione cubana festeggia oggi i suoi primi cinquant’anni. Nel mondo occidentale molte sono le critiche nei suoi confronti, e alcune possono essere legittime quando vengono fatte con spirito costruttivo e allo scopo di aiutare quell’esperienza straordinaria a resistere. Altre, come quelle mosse in queste settimane dai Ds, sono invece del tutto inaccettabili, poichè danno fiato alla campagna statunitense tesa a distruggere questa formidabile esperienza rivoluzionaria. Il nostro compito è contrastarle duramente.
Accerchiata, minacciata e criminalizzata dai nemici di sempre, Cuba non ha mai rinunciato ai grandi ideali che hanno animato la rivoluzione, compresa la solidarietà internazionalista: ieri in prima fila a fianco dei popoli in lotta contro i retaggi colonialisti e il razzismo (centinaia furono i volontari cubani morti per la libertà della Guinea Bissau, del Congo, dell’Etiopia, dell’Angola), oggi disponibile a mettere a disposizione dell’umanità – con i suoi medici, tecnici e insegnanti eletti ad ambasciatori di pace e progresso in America, Asia e Africa – le conquiste scientifiche conseguite negli ultimi anni.
Durante le celebrazioni del 26 luglio, Fidel ha detto: “Cuba è difesa anche da una gigantesca trincea di sentimenti e idee contro la quale si infrangerà tutto l’arsenale di bugie, demagogia e ipocrisia con cui l’imperialismo pretende d’ingannare il mondo. Con idee veramente giuste e una solida cultura generale e politica, il nostro popolo può lo stesso difendere la propria identità e proteggersi dalle pseudoculture che emanano dalle società di consumo disumanizzate, egoiste e irresponsabili”. Ricordando quel 26 luglio di cinquant’anni fa, vorremmo anche noi poter dare un contributo in questa direzione.