Crisi del «terrorismo umanitario»

L’attacco terroristico che a Kabul ha spento la vita di sei soldati italiani, assieme a quella di circa venti civili afghani, dovrebbe indurci ad una seria riflessione politica, molto al di là del cordoglio d’occasione. Dovrebbe anzitutto ricordarci che oggi, più di sempre, la guerra comporta la strage di vite umane e che la guerra in Afghanistan ha già sacrificato la vita di decine di migliaia di persone e continuerà a sacrificarla. Altre centinaia di civili afghani e di militari occidentali moriranno nei prossimi mesi. L’imponente operazione «Colpo di spada», voluta dal presidente Barack Obama all’inizio del suo mandato, non si fermerà facilmente. Fra le vittime ci saranno inevitabilmente altri giovani italiani. Sembra che i combattenti afghani abbiano ben capito quello che il ministro La Russa ha sbandierato in lungo e in largo nelle ultime settimane: gli italiani sono in Afghanistan non per una missione di pace ma per fare la guerra.
Che senso ha tutto questo? Che cosa legittima questo fiume di sangue? Quali sono gli obiettivi perseguiti dai combattenti occidentali, quelli italiani inclusi? In gioco sono valori irrinunciabili come la libertà e la democrazia o la guerra ha invece origine in spietati interessi economici e in strategie di dominio neocoloniale?
In questi giorni di lutto i rappresentanti del governo e del parlamento italiano si sono espressi in termini singolarmente concordi: i militari italiani sono impegnati in una guerra legittima che deve continuare nonostante le perdite umane. La missione Isaf-Nato alla quale essi aderiscono – si sostiene – è stata legittimata dalle Nazioni Unite ed è dunque in perfetta sintonia con il diritto internazionale vigente, oltre che con la Costituzione italiana. E ciò che rende nobile oltre che legale la presenza militare dell’Italia in Afghanistan è la volontà di contribuire alla ricostruzione dello Stato afghano e alla esportazione in Afghanistan dei valori della libertà e della democrazia.
Si tratta – da Ignazio La Russa a Pier Ferdinando Casini, a Pier Luigi Bersani, a Massimo D’Alema – di una sconfortante retorica bipartisan, espressione della dipendenza della politica estera italiana dalla volontà degli Stati Uniti e, di conseguenza, dagli ordini della Nato. Come è noto, in Afghanistan la Nato non è che la longa manus europea della superpotenza americana. E l’intesa bipartisan si alimenta di una complice deformazione delle circostanze di fatto e di diritto, oltre che di una opportunistica declamazione della missione umanitaria dell’Italia nel mondo.
Ciò che si deve dire con fermezza è che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha mai autorizzato la guerra scatenata nell’ottobre 2001 dal presidente Bush contro l’Afghanistan – la famigerata missione Enduring Freedom -, né ha mai consacrato come legittima la leadership di potere del collaborazionista Hamid Karzai, sostenuto dagli occupanti statunitensi. E neppure ha mai incaricato l’Isaf (poi passata nel marzo 2003 sotto il controllo della Nato) di dar vita ad una operazione bellica contro gli insurgents afghani, in particolare dell’etnia Pashtun, fermamente impegnati nella resistenza agli invasori.
Assecondando una richiesta emergente dai controversi «Accordi di Bonn» del 5 dicembre 2001, il Consiglio di Sicurezza aveva assegnato all’Isaf (non a caso denominata International Security Assistance Force) il solo compito di «assistere l’Autorità afghana provvisoria nel mantenimento della sicurezza nella città di Kabul e nei suoi dintorni, in modo che l’Autorità provvisoria e il personale delle Nazioni Unite fossero in grado di operare in un ambiente sicuro». Se è questo che aveva affermato la Risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, allora la missione dell’Isaf non aveva nulla a che fare con la guerra sanguinosissima che la Nato avrebbe poco dopo scatenato nell’intero territorio afghano, spesso agli ordini di comandanti statunitensi, con l’obiettivo di distruggere per sempre il movimento talibano.
Quanto alla motivazione umanitaria della guerra – l’esportazione in Afghanistan della democrazia e dei diritti di libertà – basterebbe a sottolineare che in oltre otto anni di occupazione la struttura politica afghana non è stata neppure sfiorata dai valori e dalla procedure della democrazia rappresentativa. Nessuno osa più negare che le elezioni del 2004 e del 2008 sono state una farsa grottesca voluta e organizzata dagli Stati Uniti. E non c’è chi non riconosca che il governo che fa riferimento ad Hamid Karzai è, oltre che illegittimo, profondamente corrotto e senza la minima autorità rappresentativa. Chi in questi anni ha visitato l’Afghanistan conferma che la tradizione politica afghana è incompatibile con la democrazia ed è lontanissima dalla sue procedure. E riconosce che non esiste alcuno «Stato nazionale» afghano. Emerge qui il delicato problema del possibile rapporto fra democrazia e mondo islamico, un problema complicato dal tribalismo che caratterizza l’organizzazione politico-sociale dei paesi islamici o a maggioranza musulman. In Afghanistan il problema è reso ulteriormente complesso da una struttura tribale policentrica – pashtun, tagiki, uzbeki, hazara, ecc. – molto differenziata e con spiccate identità etniche. Ciascun gruppo tribale, come ha mostrato Louis Dupree (Afghanistan, Oxford, 1997), è un network delicato di diritti e di doveri, sorretto da strutture di potere fortemente personalizzate. Uno Stato unitario non dispotico forse potrebbe riuscire ad affermarsi solo a condizione di assimilare progressivamente – non di cancellare – alcune funzioni politiche svolte dalle unità tribali, rispettandone pienamente l’autonomia e l’identità.
La pretesa occidentale di trasferire coattivamente nei paesi di religione musulmana il modello della democrazia rappresentativa come se fosse un valore assoluto e universalmente praticabile, è un’ottusa pretesa neocoloniale che ha caratterizzato in particolare la presidenza Bush. C’è da augurarsi su questo tema – dopo i primi passi che sembrano in linea con la strategia concepita dal suo predecessore – che il nuovo presidente degli Stati Uniti si ravveda, come mostra lo scontro in atto tra la Casa bianca e l’establishment militare Usa che chiede più truppe «altrimenti la guerra è persa». Ai generali Obama, per ora, risponde: «Non è vero che più truppe vuol dire automaticamente più sicurezza a casa nostra».
George Bush dichiarava di voler «democratizzare» con la forza l’intera area medio-orientale – il Broader Middle East -, ben consapevole che quest’area è il più ricco deposito di risorse energetiche del mondo oltre che uno spazio strategico di eccezionale rilievo. C’è da sperare che Barack Obama si renda conto che una guerra di aggressione camuffata con vesti umanitarie non può che essere percepita dalle popolazioni afghane come una guerra terroristica, alla quale esse resistono con i mezzi spietati di cui dispongono. Al «terrorismo umanitario» della coalizione occidentale, gli insorti afghani oppongono il terrorismo suicida, ottenendo risultati esattamente opposti a quelli che le potenze occidentali dichiarano di voler raggiungere.