CPN del 22-23 aprile 2006 – le conclusioni di FAUSTO BERTINOTTI

Indagare la società, costruire il popolo
Siamo all’indomani di un risultato elettorale importante. Importante in sé e importante per il nostro partito. Si tratta di un risultato che non va considerato un patrimonio statico ma che ci consegna un compito importante da portare avanti lungo due direttrici che si muovono insieme: indagare la società e costruire il popolo.
Indagare la società è un compito rilevante sia strutturalmente che soggettivamente, poiché permette di indossare buoni occhiali per vedere e per capire. Capire, però, non è sufficiente, occorre anche avere la capacità di compiere una narrazione poiché una visione scientifica, oggettiva, non ci basta. E la nostra cultura politica costituisce un pezzo importante di questi occhiali.

Siamo di fronte a soggettività in nuova formazione, sia dal punto di vista della classe che della generazione e per generazione ovviamente non si intende un fatto anagrafico ma una cultura politica. Siamo di fronte ad un quadro nuovo, siamo all’incrocio tra una coscienza di classe, così come la particolare storia nostra ce la consegna strutturata, e l’ingresso di nuove pratiche. E’ dunque nuovo il modo in cui dobbiamo indagare.

Lo sviluppo della comunicazione è stato dirompente nella nostra società. Il messaggio di una certa comunicazione ha avuto la forza di infrangere costruzioni che davamo per sedimentate fino alla condizione attuale in cui spesso l’ “io” vince sul “noi”. Questo “noi”, però, non è vinto del tutto e riemerge attraverso la via dei movimenti. In questo contesto nascono anche delle domande di liberazione del tutto inedite, tutte dentro una nuova cultura antimercantile che ne diventa il tratto comune. Ed è per questa via che il tema della costruzione del popolo diventa per noi un aspetto fondamentale. Questo tema, per chiarezza, non ha nulla a che fare con la discussione degli anni sessanta su “popolo e classe”. Popolo e classe erano allora due concetti evidenti che rimandavano a due diverse istanze. Da una parte stava l’idea dell’identità nazionale, dall’altra la “resistenza tradita”. Oggi, ambedue queste istanze sono oggetto di destrutturazione e per noi il compito oggi è quello di tentare una ricostruzione. La mia tesi è che la ricostruzione si fa solo simultaneamente perché oggi nessuno dei due pezzi esiste separatamente.

Alternanza contro la grande coalizione
La rivoluzione restauratrice ha messo in crisi tanto la società che la politica, ogni ricostruzione di classe dunque passa attraverso la ricostruzione di popolo. Su questo macrolivello di analisi sta il rapporto politico tra alternanza e alternativa. Intanto chiariamo che questa formula è una semplificazione e quindi in quanto tale è per forza inadeguata. Quello che si vuole significare è che non esiste una soluzione al nostro compito dentro l’autonomia del politico. Questo in realtà è sempre vero, ma in questa fase una soluzione di questo tipo non solo non è praticabile ma neanche pensabile. Ci vuole un processo radicato nella società che attivi la politica. E il tema dell’alternanza oggi si pone in maniera del tutto diversa che negli anni novanta. Allora il problema era la “governabilità” e quali le regole che la favorivano. Il quadro in cui questo si inseriva era la “fine della storia” e il pensiero unico. Il centro divenivano gli esecutivi poiché si riteneva finita la stagione della rappresentanza. In questo quadro i comunisti erano stretti in una marginalità residuale, erano considerati una sopravvivenza di un’epoca finita. Noi siamo riusciti, dentro una resistenza soggettiva, ad esistere come forza autonoma, ma questo non cambia il quadro.

Oggi il tema della “governabilità” praticamente è sparito dal linguaggio politico e la destra al governo deve farsi “rivoluzionaria”, proporre un’ideologia della reazione. Il governo diviene di nuovo il luogo dove si problematizza il rapporto con la società e con il conflitto. Questo è già realtà in Europa, basti guardare alla Francia e alla Germania.

Insomma, oggi l’alternanza poggia su basi diverse di ieri. L’alternanza si presenta come uno spazio praticabile perché contro di essa è stata posta la grande coalizione. L’alternanza, cioè, è un’opzione aperta contro una chiusa rappresentata dalla grande coalizione e per questo motivo diviene uno spazio in cui è possibile far vivere l’alternativa.

Il Partito Democratico e la Sinistra Europea
L’idea che la politica sia soppiantata dal governo è morta.

Noi facciamo il tentativo della Sinistra Europea, che mette in connessione le lotte e le diverse esperienze e ne viene fuori una forza attiva. Die Linke è un altro caso significativo di questo tentativo di ricostruzione: una esperienza con una storia così importante, come la Pds si mette insieme a pezzi di sindacato e realtà dell’esperienza della socialdemocrazia. Sono questi i soggetti che si attrezzano per un panorama nuovo.

In Italia la grande coalizione diventerà possibile se cade Prodi. E per questa ragione noi investiamo su questo governo. Non dobbiamo temere, anzi tenere saldo, il legame tra Rifondazione e Unione perché questo legame esiste di fatto. C’è oggettivamente e anche soggettivamente perché vive nel popolo della sinistra. Cambiamento e unità oggi sono richiesti insieme: se ti collochi fuori da questo quadro diventi incomprensibile.

Questo ovviamente ci pone un problema. Dobbiamo indagare e vigilare come non essere sussunti da questo quadro. Ma la questione dell’unità nasce dalle masse che hanno capito prima della politica ed alla politica hanno indicato la strada. E la strada è quella stessa dei movimenti contro le scorie di Scansano, per il contratto dei metalmeccanici, contro la Tav. e su queste cose ce l’hai fatta e tutti l’hanno colto. Soprattutto i giovani.

I dati ci dicono che una grande parte dei giovani si colloca dentro la sinistra radicale e questo lo mostrava già plasticamente la campagna elettorale. La grande massa di essi vota Unione e moltissimi scelgono l’Ulivo per il moto verso l’unità. Dobbiamo guardare con attenzione il percorso che porta dall’Ulivo e al Partito Democratico. Possiamo certo cogliere una spinta centrifuga da questo processo soprattutto in pezzi dei Ds ma questa viene sovrastata da una spinta centripeta di popolo, anche su parti di popolazione molto più radicali di quanto siano le posizioni politiche del Partito Democratico. Proprio la natura di quel partito permette di aprire uno spazio di convivenza non contraddittorio tra radicalità della militanza e moderazione nel voto, sul modello anglosassone. Non esistono più i margini alzati dalla nostra storia per pensare che questo non possa realizzarsi anche qui da noi.

Noi dobbiamo agire sul terreno del conflitto che è lo stesso terreno dell’unità. E, per non diventare estranei alla società e al nostro stesso popolo, dobbiamo inventare ed agire un’idea nuova di unità
Due sono le strade che percorriamo simultaneamente.

La Sinistra Europea, che è un punto vero di riforma della politica, e che di sicuro non è la riproposizione in piccolo del fronte popolare. E’ un mezzo che dobbiamo usare per tentare di interloquire con quelle domande di radicalità diffusa che spesso rimangono inespresse sul piano della politica o che hanno un rapporto di sospetto quando non di disprezzo con la politica e soprattutto con i partiti. La Sinistra Europea o acquista questa capacità o non diventa nulla. Uno spazio per coloro che agiscono con noi ma che non verranno mai in Rifondazione e un percorso comune che passa anche dalla nostra presa d’atto della crisi della politica. Noi dobbiamo cercare con loro un’unità che trascenda la somma delle parti.

Il governo e la sfida riformatrice
L’altra strada è la sfida di governo, la sfida riformatrice. Certo dobbiamo ben sapere quanto questa sia difficile, ma non so quanto sia utile continuare a dircelo tra noi. E’ forse più utile cominciare ad indagare come si possa compiere il cammino riformatore. Da questo dipende, in questa fase, la nostra stessa possibilità di sopravvivenza. Se non ci riusciamo, fuoriusciamo dalla politica. Questo passaggio si presenta a noi come una necessità storica, una cosa che è nella temperie del tuo tempo a prescindere da cosa ne pensi. La stagione del moderatismo è finita. Quella era, al tempo stesso, una idea della politica e un nucleo di forze. Ora la crisi ci dice che i margini di manovra sono spariti e il cambiamento diventa necessità storica. Dall’altra parte, e di fronte alla crisi, noi assistiamo all’emergere di un’altra Italia rispetto a quella del neoliberismo e ne potremmo fare una mappa. Vediamo nascere dinamiche del tutto nuove in campi che ci sembravano, a noi della nostra cultura, del tutto impermeabili al cambiamento. Basti pensare a cosa avviene nell’agricoltura. E con questo emergere di istanze antiliberiste, o ti metti in sintonia o vieni spazzato via.

Il problema di cui discutiamo non è dunque il governo come approdo. La discussione sul governo è un diversivo che ci porta lontano dal nostro compito. Noi non stiamo “portando il partito al governo”, ci stiamo accingendo a compiere un’esperienza di governo con un’idea di partito e di società. E cerchiamo, persino attraverso questa via, di riaffrontare il tema del soggetto del cambiamento, anzi, più precisamente quello della ricerca di un blocco socioculturale per il cambiamento, in cui la componente culturale non è meno importante di quella sociale, per il rapporto con il conflitto e per la conflittualità con l’idea tradizionale del rapporto tra partiti e società. E’ un processo fondato sull’idea di un compromesso sociale dinamico segnato da alcuni elementi di novità.

La ricerca si allarga e parte dal tema della civiltà e della sua crisi. Questo era un elemento forse inatteso ma che di fatto diviene la costituente di un popolo. C’è poi la crisi economica, il declino industriale e soprattutto la crisi della borghesia imprenditoriale, ed è un processo a confini mobili.

Come ci ricorda Marcello Cini è una sfida sulla frontiere che corre tra il postfordismo e l’economia della conoscenza. Una società in cui il massimo della disuguaglianza è ricercato attraverso la diffusione della precarietà. Cioè la precarietà non come cascame della forma economica ma come effetto ricercato e come modalità per definire il terreno dei rapporti e dei conflitti.

In questo, le forme della politica neoliberista non sono morte ma tendono a ristrutturarsi continuamente. L’esperienza del berlusconismo è, ad esempio, una forma di risposta estremistica a questa crisi. Le sue leve sono l’autoritarismo e il populismo.

Oggi dunque noi guardiamo al programma dell’Unione leggendolo con l’occhio al processo storico entro il quale è stato scritto. E’ notevole che un uomo come Luciano Gallino lo definisca sorprendente per i contenuti. Questo risultato, che è sulla carta, lo dobbiamo presidiare. Perché contro di esso muoveranno insieme un’avversione esterna ed un conflitto dall’interno. Ci sarà una lettura che proverà a riscoprire i corpi intermedi sofferenti, ma non per fargli esprimere potenza riformatrice ma per proporre una nuova concertazione, che offra una unità a bassa intensità di conflitto. Noi abbiamo un’altra visione non perché non ci piace la parola concertazione ma perché pensarla oggi, in questi termini, è velleitario in quanto è fondata su un’analisi sbagliata del Paese, su uno sguardo che non vede l’altra Italia.

Tutti i contenuti del programma sono attraversati da questa tensione. La nostra leva è la realtà, come sulla legge 30 la cui abrogazione o modifica radicale non è la tua bandiera ma una spinta che ti viene da fuori, ad esempio dal sindacato. Altri punti saranno più difficili e deve esserci una grande capacità di riarticolazione. I punti di difficoltà non possiamo superarli con la minaccia della rottura ma con una costruzione del compromesso che passi dal processo partecipativo e non cada dall’alto.

Ricordo un passo di Morandi del 1953, che ci ricorda, in quel tempo lì, a noi che avevamo un’idea di rivoluzione, che il problema era quello di essere estremisticamente democratici per consentire al popolo di tracciare la sua strada di liberazione. Si torna, così, al problema centrale della costruzione di un popolo.

Riprogettare il partito
E per questo va anche riprogettato il partito. Perché devi partire dal fatto che la spinta pubblica è connessa con quello che vivi e pensi. Ora voglio ricordare, non essendo sospettabile di simpatie per quel modello, che anche il centralismo democratico aveva un suo pregio, quello di “consolidare” la comunità. Quella modalità è superata ma il problema rimane. E oggi il consolidare la nostra comunità può passare solo per la scelta dei singoli che vi si riconoscano socialmente e culturalmente.

Non ci serve rinunciare al Partito della Rifondazione Comunista. Abbiamo bisogno di più partito, più rifondazione, più comunista, in modo di offrire uno spazio condiviso a tutte le culture critiche e, su questo, il terreno privilegiato è la nonviolenza che deve divenire il centro anche nella scelta dei linguaggi.

Abbiamo bisogno dunque di un rilancio del partito dentro e con altre forme. Un luogo nuovo di luoghi nuovi. Su questo muove la sfida al partito democratico, in un confronto aperto tra due sinistre (il tema torna) per l’idea di società. E in questa sfida c’è il posto proprio per tutte e tutti.