CPN del 17 giugno – Intervento di ANDREA CATONE

La scadenza di fine giugno pone il PRC – per la prima volta organicamente in un governo di coalizione – di fronte alla questione del rifinanziamento delle missioni italiane all’estero nei principali teatri di guerra. Queste sono parte di un problema più ampio: quello della definizione delle linee fondamentali della politica estera del governo italiano, in particolare nei suoi rapporti con la superpotenza USA, la quale, nella fase attuale di crisi e rimodulazione degli assetti mondiali, è, per ragioni economiche (a causa dell’enorme indebitamento USA, il dollaro si sostiene come valuta mondiale solo grazie alla proiezione politico-militare statunitense, mirante a contenere la concorrenza della altre aree valutarie, in particolare l’euro) e ideologiche (la “missione americana” nel mondo) il fattore principale dello scatenamento di guerre imperialistiche.

La valutazione dell’impiego delle missioni militari italiane nel mondo va fatta anche alla luce di questo particolare ruolo aggressivo della più imponente superpotenza militare di tutti i tempi, che produce guerra nel duplice senso che la spesa pubblica militare è uno dei principali volani dell’economia USA e che questi possono mantenere il primato del dollaro solo grazie alle guerre.

Per quanto riguarda la più recente di queste guerre, quella contro l’Iraq, cominciata nel 2003 e non ancora terminata – grazie alla tenace resistenza, politica e militare, degli “insurgents” (come lo stesso Bush li chiama) contro l’occupazione anglo-americana e i suoi governi-fantoccio – va salutato come un successo significativo dei movimenti contro la guerra, della sinistra di alternativa e del PRC l’annunciato ritiro dell’intero contingente militare italiano entro tempi brevi (anche se meno brevi di quelli che avremmo auspicato e con un percorso meno lineare e diretto di quello della Spagna di Zapatero) e definiti (sulla cui effettiva attuazione occorrerà però mantenere un alto livello di attenzione e mobilitazione per scongiurare qualsiasi manovra dilatoria).

Il successo ottenuto col ritiro dall’avventura irachena è stato anche favorito e reso possibile – oltre che dalle mobilitazioni di massa e dalla grande attenzione che i media sono stati costretti a concentrare sul teatro iracheno dall’attività crescente della guerriglia che ha colpito pesantemente gli eserciti occupanti, in primis gli USA, ma anche inglesi e italiani – dal contrasto, per la prima volta apparso in modo palese ed esplicito, tra le principali potenze dell’area UE (Francia e Germania) e gli USA. È stato più facile presentare all’interno dell’Unione la guerra irachena come estranea – se non contrapposta – agli interessi europei e il ritiro da essa come un ritorno dell’Italia nel seno dell’Europa, da cui la politica filo-Bush del governo Berlusconi l’aveva allontanata. Infatti, al centro della politica estera italiana tracciata nel programma dell’Unione viene posto, con grande enfasi e sottolineature, il rapporto organico con la UE e il rilancio di quest’ultima.

Ma i militari italiani sono impegnati altresì in buon numero in Afghanistan. Questa missione militare NON è, come si vuol far credere, sotto l’egida dell’ONU, ma è una missione NATO sotto il comando diretto degli USA. Infatti (cfr. il recente articolo di Manlio Dinucci sul Manifesto del 13 giugno 2006), «l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver “assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu”. E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere il comando dell’Isaf. Nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che autorizza l’Isaf a operare “in aree esterne a Kabul e dintorni”, e nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la missione, da questo momento, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. E poiché il “comandante supremo alleato” è (per diritto ereditario) sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono». NON è dunque una missione di pacificazione o di interposizione tra fazioni in lotta, ma si tratta dell’occupazione militare dell’Afghanistan operata da USA e Gran Bretagna alla fine del 2001 e preparata ben prima del fatidico attentato dell’11 settembre alle “2 torri”, che è servito da ottima giustificazione per l’invasione di un paese collocato strategicamente nel cuore dell’Eurasia, tra Russia, India e Cina, Iran, dove non erano mai giunte truppe USA e che ora pullula di basi americane che minacciano da vicino il paese che Samuel Huntington indicava già 10 anni fa nel suo “Scontro di civiltà” come il nemico strategico: la Cina.

La presenza di militari italiani sotto comando USA in un teatro di guerra per sostenere militarmente un governo filoUSA è un’azione di guerra contraria alla costituzione italiana. Sostanzialmente non è diversa dalla presenza militare italiana in Iraq: funge da supporto alla politica aggressiva degli USA (che usano il terrorismo come passepartout per le loro guerre) ed è un presupposto per nuove avventure militari.

Qui, tuttavia, a differenza che in Iraq, USA ed UE agiscono apparentemente di comune accordo e anche Zapatero invia le sue truppe. Ma, anche qui, gli interessi delle potenze europee in Afghanistan e in Eurasia sono concorrenti con quelli degli USA: gli europei cercano di ritagliarsi, con la presenza militare e gli investimenti per la “ricostruzione civile”, un loro spazio di penetrazione. È del tutto evidente, perciò, che all’interno dell’Unione, che ha nel suo leader Prodi uno dei maggiori esponenti della borghesia europeista, la battaglia per il ritiro dall’Afghanistan sarà molto più dura.

Ma qui la posta in gioco è altissima. Infatti, la questione della pace e della guerra, a differenza di altre di carattere economico-sociale, su cui si può trattare sulla base dei rapporti di forza (ad es. entità e modalità della manovra economica, tempi e modi di attuazione di una nuova scala mobile), inerisce alla natura stessa, all’identità di un partito comunista. Il comunismo novecentesco nasce nel 1914 rompendo con le socialdemocrazie che votarono i crediti della guerra imperialista: tra i primi atti del governo bolscevico nato dalla rivoluzione di ottobre 1917 è la stipula immediata della pace con la Germania. Questa grande eredità del comunismo novecentesco rimane – mi auguro – patrimonio condiviso di tutto il partito, della “sinistra alternativa”, dei movimenti contro la guerra. E ciò è ancora più rilevante oggi, nell’epoca del capitale globale. La lotta contro la guerra imperialista è strategica, fondamentale, imprescindibile.

Su questa questione il partito tutto deve riprendere con forza la mobilitazione e i compagni che sono nel parlamento e nelle istituzioni devono battersi per il ritiro dall’Afghanistan agendo conseguentemente in tutte le sedi istituzionali e politiche. Il messaggio che va mandato agli alleati della coalizione è che su questa questione non sono possibili escamotage, tatticismi o aggiustamenti di facciata, ma solo un effettivo e radicale mutamento della politica estera italiana, che va riportata alla sostanza dell’articolo 11 della Costituzione. Solo su questa base si può trattare, costruendo lo schieramento più ampio di forze contrarie all’avventura militare in Afghanistan (e che in parlamento votarono, come del resto il PRC, contro il suo finanziamento), per definire modalità e tempi certi e brevi del completo ritiro delle truppe italiane.

Se vogliamo effettivamente ritornare alla sostanza dell’articolo 11 della Costituzione bisogna sviluppare anche un’azione culturale di critica della guerra in netta contrapposizione con le posizioni predominanti nel futuro “partito democratico”, sostenitore della tesi che la guerra contro l’Iraq del 2003 è sbagliata perché decisa unilateralmente dagli USA, mentre, come si può leggere tra le righe del programma dell’Unione (cfr. pp. 97-102), gli interventi militari multilaterali avallati da organismi sopranazionali – tra cui si elenca non solo l’ONU, ma anche la UE e la NATO -, sarebbero legittimi, di “polizia internazionale” (cfr. p. 98), cui il programma auspica che l’Italia dia un consistente apporto. È con questo tipo di discorso che si giustifica il mantenimento e l’ampliamento della missione in Afghanistan.

È sulla base di questo discorso, sostenuto dalla più complessa costruzione ideologica della “guerra umanitaria”, che si promosse l’aggressione militare della primavera 1999 contro la Jugoslavia, rispetto alla quale né il presidente del consiglio Prodi, né l’attuale ministro degli esteri, e nel ’99 presidente del consiglio, Massimo d’Alema, hanno manifestato la sia pur minima autocritica, rivendicando anzi con pervicacia la giustezza di quella devastante guerra.

Sulle cui conseguenze vi è un colpevole silenzio e disattenzione anche da parte della sinistra alternativa. In particolare – salvo qualche eccezione – sulla situazione in Kosovo si tace: eppure si tratta della vita di centinaia di migliaia di persone che subiscono oggi condizioni infami. Alla presenza delle forze militari della KFOR (prevalentemente paesi NATO) e dell’UNMIK, il Kosovo sotto protettorato ONU si è trasformato in una gabbia a cielo aperto per le poche decine di migliaia di serbi e rom rimasti. Oltre 300.000 hanno dovuto abbandonare, sotto la violenza del nazionalismo estremista albanese espresso dall’UCK, la terra che abitavano. I serbi sono costretti a vivere in condizioni di estrema insicurezza, sono continuamente oggetto di attacchi e violenze, sono discriminati nell’accesso al lavoro e alle cure mediche, sono privati dell’uso della propria lingua negli uffici pubblici, nei tribunali, nelle istituzioni. Il pogrom antiserbo del marzo 2004 ha provocato decine di morti e migliaia di feriti, costretto alla fuga altre migliaia di serbi, bruciato e saccheggiato le loro case e i luoghi della memoria e della cultura come i preziosi monasteri medievali. Dove sono finiti i difensori dei “diritti umani”?

In violazione della risoluzione 1244/99 dell’ONU, le potenze che nel 1999 scatenarono la guerra contro la Jugoslavia (e tra esse ebbe un ruolo decisivo il nostro paese allora guidato dal governo D’Alema), si apprestano a dare origine ad un nuovo microstato etnicamente puro. La formalizzazione internazionale dell’indipendenza del Kosovo significherà con ogni probabilità l’espulsione massiccia di tutti i serbi rimasti: l’Onu, in previsione di ciò che potrebbe accadere non appena tagliato definitivamente il cordone ombelicale che lega il Kosovo alla Serbia ha già preparato un piano di evacuazione per 70.000 persone. L’ulteriore spezzettamento di quella che fu la Jugoslavia – con la recentissima secessione del Montenegro e l’annunciata formazione di uno stato monoetnico del Kosovo – non favorisce i processi di pace.

Il PRC che – unico sulla scena italiana – si oppose alla “guerra umanitaria” del 1999, non può oggi chiudere gli occhi sulla drammatica situazione dei Balcani. Vanno avviate campagne di sensibilizzazione di massa sul silenzioso etnocidio in corso in Kosovo e, attraverso i nostri rappresentanti nelle istituzioni – in particolare nel parlamento e governo nazionali e nelle regioni – va sviluppata una politica che contrasti ulteriori processi di frantumazione della ex Jugoslavia e tuteli i diritti delle minoranze del Kosovo a ritornare nella loro terra e a vivere una vita dignitosa e sicura in una regione effettivamente multietnica.