CPN del 17 giugno – Intervento di ALBERTO BURGIO

Intervento al Cpn del 17 giugno 2006 – Alberto Burgio (Direzione Nazionale)

1. Se qualcuno dubitasse che l’accelerazione dei tempi della politica è un carattere saliente di quest’epoca, le vicende in corso nel nostro Paese basterebbero a fugare ogni dubbio al riguardo. Gli avvenimenti di queste settimane – ad appena due mesi dalle elezioni politiche, a meno di un mese dall’insediamento del governo Prodi – danno già la possibilità di un primo bilancio della fase apertasi dopo la fine del governo delle destre. È un bilancio che conferma le nostre più allarmate previsioni. Su tutti i terreni cruciali della sua azione, il governo dell’Unione ha assunto posizioni marcate da un deciso timbro moderato. Se l’aspettativa degli elettori del centrosinistra era – come riteniamo – una netta discontinuità rispetto alle politiche praticate dalla Casa delle Libertà, le scelte del governo Prodi si collocano invece lungo una linea di continuità, peraltro talvolta proclamata, programmata.
Su tutti i principali terreni, dicevo. Mi limito qui a un disordinato sommario: sulla politica economica, dopo gli annunci di manovre aggiuntive (naturalmente a suon di tagli) è venuto fuori da ultimo il proclama di una Grande manovra da 45 miliardi di euro: un programma di «lacrime e sangue», come l’ha definito la grande stampa borghese. Il ministro Bersani continua nella sua politica di “liberalizzazioni” e strizza l’occhio ai grandi petrolieri e ai padroni dell’energia, ai quali ha fatto grandi regali nel corso degli anni Novanta. Il ministro del Lavoro non passa giorno senza rassicurare Confindustria sul destino della Legge 30 («non la cancelleremo») e difende la normativa sui co.co.pro (il peggio della legislazione Treu-Maroni). Sui diritti – sulle misure di civiltà – il presidente del Consiglio si precipita a tranquillizzare le gerarchie vaticane e i fondamentalisti cattolici dell’Unione sconfessando i propri ministri che osano dichiararsi favorevoli alle strategie di riduzione del danno per i tossicodipendenti (le cosiddette «stanze del buco», sperimentate in mezza Europa) o all’adozione di tutele normative delle coppie di fatto (peraltro previste nel programma di coalizione). Sul referendum, ministri, sottosegretari e leader delle forze moderate dell’Unione dichiarano che l’abrogazione della controriforma della destra non chiuderà certo la partita delle riforme costituzionali, poiché anzi, subito dopo il 25, si ricomincerà con nuovi pasticci (Convenzioni o Bicamerali che dir si voglia).
Ma è soprattutto sulla politica estera che dobbiamo oggi concentrare la nostra attenzione. Il ministro degli Esteri è andato a Washington e ha espresso una linea che ci riporta ai peggiori anni del suo governo, quando l’Italia fu in prima linea tra i Paesi impegnati nella guerra balcanica e nei bombardamenti sul Kosovo. D’Alema si è premurato di scavalcare a destra persino il ministro della Difesa Parisi. Che ha sì definito la missione in Afghanistan una «missione di pace», ma ha perlomeno escluso – almeno sinora – incrementi di truppe o invii di aerei, ritenuti invece possibili dal capo della Farnesina.
Insomma, un complesso di scelte che non configurano nemmeno la tenuta riedizione dei governi dell’Ulivo. Quanto sta accadendo è persino peggio. Registriamo l’egemonia delle componenti più moderate dell’Unione in un quadro che vede queste forze (e segnatamente i vertici dei Ds) su posizioni più arretrate di quelle dello scorso decennio. E rileviamo con preoccupazione il crescente potere di condizionamento degli alti comandi militari, apparso evidente nella vergognosa vicenda dell’elezione del presidente della Commissione Difesa del Senato. Anche questo è il risultato di quindici anni di ininterrotta partecipazione del Paese alle guerre «democratiche» (dal Golfo all’Iraq, passando per la Somalia, i Balcani e l’Afghanistan), cioè di quindici anni di sistematica violazione della Costituzione repubblicana.
Tutto ciò accade – non perdiamo mai di vista questo dato di fatto – in un Paese segnato in profondità (nella cultura, nei comportamenti, negli assetti di potere diffuso) da cinque anni di governo delle destre. E dal peso crescente dei poteri forti (Confindustria, sacerdoti di Maastricht, alfieri degli Stati Uniti, grande stampa borghese, Vaticano). In questo contesto vanno collocate le manovre preparatorie di una Grande coalizione, in atto proprio in questi giorni (con l’avallo del presidente Napolitano e il fattivo sostegno del «Corriere della Sera» e di «Repubblica») in preparazione dei passaggi parlamentari più delicati (sulle missioni militari, sulla «manovrina», sul Dpef).

2. A questo punto potremmo limitarci ad osservare che le previsioni alla base della linea politica del Partito sono state duramente smentite dai fatti. Che ne è dell’idea secondo cui – grazie all’azione dei movimenti e all’incalzare del conflitto – il centrosinistra si sarebbe spostato nel corso di questi ultimi anni su posizioni più avanzate? Che cosa resta dinanzi a noi a giustificazione dell’ottimistico slogan – «Verso un mondo nuovo» – all’insegna del quale fu posto, appena un anno fa, il nostro VI Congresso? Ma non ci interessa qui tanto recriminare. Ci preme piuttosto capire in che situazione siamo e dove stiamo andando.
Questa situazione pone tutta l’Unione in grave difficoltà. Il Paese – in particolare le classi lavoratrici – rischia di essere duramente deluso nelle proprie aspettative. Bisogni sociali diffusi e vitali rischiano di rimanere senza risposta. Un disagio crescente minaccia di spingere le fasce più deboli verso forze antipopolari e antidemocratiche, come già avvenne nel 2001. Indubbiamente ciò dovrebbe preoccupare tutto il centrosinistra. Ma deve allarmare in primo luogo noi che siamo la forza di gran lunga più significativa e rappresentativa della sinistra di alternativa. A noi guardano le fasce più deboli della popolazione, le famiglie che vivono di stipendio o di salario, i lavoratori dipendenti, i giovani afflitti dalla precarietà, gli studenti che chiedono la difesa della scuola e dell’Università pubblica, i disoccupati, i pensionati. La nostra gente, alla quale il ministro dell’Economia ha il coraggio di chiedere ancora «moderazione salariale» e sacrifici.
Chi pagherà più di tutti se la politica del governo si svilupperà lungo questi binari? Chi se non i partiti ai quali si chiede la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni, la sicurezza del lavoro, la tutela dello Stato sociale, una politica redistributiva che ponga fine allo scandalo delle retribuzioni d’oro e dell’evasione fiscale e contributiva e consenta a tutti una vita compatibile con la dignità delle persone?
Dico questo perché ho il timore che la pericolosità di questa fase non sia adeguatamente percepita in tutta la sua portata. È un momento delicatissimo, gravido di pericoli. Se non troviamo adesso la forza di porre argine a questa deriva, rischiamo davvero di essere travolti, risucchiati in un processo che non soltanto nega in radice le ragioni della nostra partecipazione al governo, ma può mettere a repentaglio la stessa tenuta del Partito.

3. Che fare dunque in questa situazione? La risposta è obbligata. Occorre trovare una risposta di alto profilo. Rilanciare la nostra iniziativa, recuperando tutta la nostra autonomia di giudizio, di proposta e di iniziativa. A chi chiede «moderazione salariale» dobbiamo rispondere con un rinnovato impegno nella campagna per la nuova scala mobile. A chi tesse le lodi della «buona flessibilità» e difende le leggi della precarizzazione dobbiamo rispondere dicendo che la sicurezza del posto di lavoro (il tempo indeterminato) rimane per noi un obiettivo irrinunciabile. A chi evoca manovrine e sacrifici dobbiamo ricordare che l’alleanza dell’Unione riposa sul formale impegno a non praticare la politica dei «due tempi».
Ma ancora una volta è alla politica estera che ritengo indispensabile oggi dedicare la maggiore attenzione. Vorrei fosse chiaro a ciascuno di noi il pericolo che corriamo – che il Partito e il Paese corrono – nel caso in cui dovesse affernarsi l’oltranzismo filoatlantico del ministro D’Alema. Non possiamo sottovalutare questo rischio. Il D’Alema che è corso a colloquio dal Segretario di Stato americano per garantire che dall’Afghanistan le truppe italiane non se ne andranno e che, anzi, ove la Nato lo richieda, l’Italia sarebbe pronta a inviare rinforzi; quel D’Alema è lo stesso che sempre a Washington, sette anni fa, appose la propria firma, in qualità di presidente del Consiglio, all’accordo che trasformò la Nato in una forza offensiva abilitata a intervenire in ogni parte del mondo.
Oggi dunque si tratta dell’Iraq e dell’Afghanistan. Quanto all’Iraq, si dice che ormai il ritiro del contingente italiano è fuori discussione. Si parla dell’autunno, ma l’autunno arriva al 20 dicembre. Un’eventualità del genere sarebbe inaccettabile. Non si era detto che il programma dell’Unione prevedeva il «ritiro immediato»? A noi che nel Partito sollevavamo perplessità per la genericità delle formule, si è replicato che non leggevamo con sufficiente attenzione. O che eravamo accecati dal pregiudizio. Bene. Ci si dimostri, adesso, che ci sbagliavamo. Si chieda a Prodi di onorare i propri impegni. Perché l’autunno? Davvero vogliamo credere alla storiella che ci vogliono sei o persino otto mesi per portare a casa mezzi e truppe?
C’è poi il problema dell’Afghanistan, che è il vero problema, perché non possiamo nasconderci il rischio che ci si dica: abbiamo lasciato l’Iraq, dobbiamo non solo restare in Afghanistan, ma dimostrare la nostra lealtà alla «comunità internazionale» inviando nuove truppe e qualche bombardiere, perché lì la guerra incalza, i taliban sono sempre più forti e insomma è in atto una drammatica escalation dalla quale non possiamo chiamarci fuori.
Questo è il pericolo, lo sappiamo bene. Basta leggere i giornali ogni giorno. La pretesa è sempre la stessa: fare come se, invece di essere un governo di coalizione, si fosse un monocolore. Le forze più forti pretendono di dettare la linea. Gli altri possono soltanto obbedire. Credo che proprio questo sia l’argomento che dobbiamo far valere in prima battuta, poiché su questo terreno di metodo possiamo aggregare le altre forze della sinistra di alternativa, che rischierebbero di scomparire ove subissero simili pretese.
Ho sentito che il Segretario, nella sua relazione, intende chiedere alle altre forze della maggioranza che si ridiscuta la missione in Afghanistan e che si apra in seno all’Unione un dibattito generale sulla politica estera. Condivido queste richieste. Ma domando: che cosa diremo noi in questa discussione? Ricorderemo che la sovranità dello Stato repubblicano e il ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Costituzione non sono materie di trattativa? E che cosa chiederemo quando si discuterà in particolare di Afghanistan? Io credo che non dobbiamo avere alcuna timidezza in proposito. Le altre forze dicono tranquillamente la loro. Oggi sui giornali è un coro – tra Parisi e D’Alema – all’insegna della «continuità» in politica estera rispetto alle scelte del governo precedente. Perché non dovremmo dire a chiare lettere, a nostra volta, quello che pensiamo noi a questo riguardo, tanto più che la stragrande maggioranza del Paese è contro queste guerre, contro la guerra e le infamie che tutti conosciamo – dalle torture al fosforo bianco, dai video in cui i nostri soldati fanno il tiro a segno sui civili iracheni alle canzoni dei marines che scherzano sul massacro dei bambini?
In Afghanistan è in corso una guerra imperialista. La Nato – che ha la direzione delle operazioni e il controllo strategico – prevede che durerà più di dieci anni. La posta in gioco sono il petrolio e l’accerchiamento della Cina, dell’India, della Russia. Il terrorismo non c’entra nulla. Dobbiamo dire queste cose, ricordando che per queste ragioni abbiamo sempre votato contro la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan. E dobbiamo dire che la Costituzione vieta a qualsiasi governo di coinvolgere il nostro Paese in guerre offensive. Questa dev’essere la nostra posizione, in un dibattito in cui non c’è nessuno che possa decidere unilateralmente e pretendere di imporre agli alleati le proprie decisioni. Si tratta di costruire una linea condivisa dall’intera coalizione e sta a noi spiegare al Paese il senso della nostra battaglia.

3. Chiudo brevemente sulla Segreteria, per motivare il mio voto contrario alle proposte di integrazione presentateci dal compagno Ferrara.
Naturalmente non sono qui in discussione le compagne e i compagni indicati né la stima nei loro riguardi. La ragione del mio dissenso – condiviso dalle compagne e dai compagni della componente «Essere comunisti» – è un’altra ed è molto semplice. Circa due mesi fa la maggioranza ha formulato l’auspicio e la proposta che si inaugurasse una nuova fase di gestione unitaria del Partito. Come ricorderete, abbiamo accolto questa proposta, convinti come siamo che il Partito sia di tutti e vada gestito unitariamente, indipendentemente dal grado di condivisione della linea politica. Per mostrare la nostra disponibilità a dar corso a una nuova fase unitaria, abbiamo votato – seppur distinguendoci su specifiche questioni – i documenti della maggioranza in una Direzione e in un Cpn. E ci siamo astenuti, in segno di apertura, in occasione dell’elezione del compagno Giordano alla guida del Partito.
Che cosa ci saremmo aspettati? Che cosa era logico attendersi da parte di una maggioranza che oggi propone una gestione collegiale dopo avere operato in tutti questi mesi scelte pesantemente discriminatorie nei confronti di tutte le minoranze del Partito e in particolare della nostra componente, a cui è stata consentita una rappresentanza parlamentare corrispondente a un terzo della sua rilevanza? Ci saremmo aspettati gesti concreti nella direzione dell’unità e della collegalità. E questo, care compagne e cari compagni, per una elementare questione di razionalità, prima ancora che per un raffinato calcolo politico.
Ebbene che cosa è avvenuto, in realtà? Nonostante la nostra disponibilità, abbiamo registrato soltanto chiusure. Basti un esempio, che conosco bene per diretta esperienza. In Parlamento sono state effettuate una ventina di scelte in ordine alla composizione degli uffici di presidenza delle Camere, dei Gruppi e delle Commissioni permanenti. Poteva essere l’occasione per un segnale, per un gesto che conferisse a quella proposta di collegialità un minimo di credibilità. Invece nulla di nulla. Alle minoranze – a cominciare dalla nostra componente – non è stata data nemmeno una posizione di qualche rilievo. Confermando una pratica di totale autosufficienza, la maggioranza ha ritenuto di riservare a se stessa la totalità degli incarichi.
Del resto anche la scelta di una segreteria nazionale tutta di maggioranza mi pare eloquente. L’impressione è che si parli di unità, ma in realtà si chieda alle minoranze accettazione e subalternità. Ma se le cose stanno così, non si fa molta strada. Noi rimaniamo convinti che l’unità del Partito è un valore in sé. Rimaniamo quindi sempre – ancora oggi – disponibili a un cambiamento effettivo, che segni una cesura rispetto alla gestione maggioritaria praticata sinora. Ma – lo ripetiamo – le parole da sole non bastano. Occorrono atti concreti. Finora quelli compiuti dalla maggioranza si inscrivono in tutt’altra logica: una logica che ci pare assai poco lungimirante e che, ad ogni modo, è per noi del tutto impraticabile.